Un papa, una regina, un imperatore. E forse anche un re.

Prendendo spunto da un passo scritto da un grande storico inglese, Steven Runciman, proviamo a dimostrare una tesi: Troina, oltre ad aver ospitato nel corso dei secoli un papa, un imperatore, una regina, cardinali, ministri, potenti, ha accolto – anche solo forse per poche ore – un re. Siamo al tempo, davvero infuocato, dei Vespri siciliani e nel pieno delle vicende storiche che scaturiscono da quella sollevazione. Inevitabilmente da questo saggio viene fuori uno spaccato di vita siciliana e locale a Troina: quanti erano in quegli anni i nostri antenati, quali le loro condizioni di vita materiale, dove abitavano, cosa producevano, cosa mangiavano? Ci accorgeremo, leggendo queste pagine, come la storia – la Grande Storia – può passare per un arroccato borgo.

Troina è fiera della sua storia millenaria ed, in particolare, di alcune vicende. Per circa un trentennio, dal 1061, fu roccaforte e provvisoria capitale della Sicilia conquistata man mano dai Normanni. Evento significativo nel periodo ricordato, esattamente nel 1088, l’avere ospitato un papa, Urbano II. Secondo lo storico Santi Correnti il quarantaseienne pontefice (giovane, stando ai nostri criteri anagrafici, ma all’epoca non era così: con un’età simile, infatti, si veniva considerati avanti negli anni perché l’aspettativa di vita era piuttosto breve) soggiornò per ben otto mesi a Troina, dal marzo al novembre di quell’anno. Eletto papa il 12 marzo 1088 a Terracina, non era potuto entrare a Roma, dove dominava l’antipapa Callisto III sotto la protezione dell’imperatore svevo Enrico IV. Fu grazie alla protezione delle milizie normanne che riuscì poi ad entrare nella capitale della cristianità ed a cacciare il rivale.

Ma la tesi di Correnti non trova riscontro nella cronaca di Goffredo Malaterra, monaco benedettino normanno dell’Abbazia di Saint-Evroul Sur Ouche che ricevette dallo stesso Conte Ruggero d’Altavilla l’incarico di scrivere la storia del primo insediamento normanno e della conquista della Calabria e della Sicilia. Scrive Malaterra: “…quindi il conte, all’inizio dell’aprile 1088, andò all’assedio di Butera. Circondò la città secondo quanto richiedeva l’arte militare e per un poco di tempo afflisse con molte distruzioni i cittadini ivi reclusi.

Mentre Ruggero era intento alla preparazione delle macchine militari per l’assedio, un nunzio di papa Urbano, portando missive chiuse col sigillo papale, annunciò che il pontefice era arrivato in Sicilia; gli chiedeva di incontrarlo a Troina per un colloquio, dal momento che il papa, stanco per il viaggio (veniva da Terracina), non voleva proseguire oltre, sia per la sfinitezza, sia per la strada montuosa che avrebbe dovuto ancora percorrere. Il conte fu perplesso su cosa fare per prima: infatti riteneva pericoloso abbandonare il luogo della battaglia, ma riteneva, da cattolico, altresì indegno non incontrare il papa dato il breve viaggio che avrebbe dovuto compiere e il lungo viaggio che aveva compiuto quello. Alla fine, saggiamente, prese la decisione di non rinunziare all’assedio di Butera, ma nello stesso tempo di andare a trovare il papa per non disobbedirgli. Affidò l’esercito ai suoi fedeli, abili ed esperti in tali circostanze, e li istruì su come proseguire l’offensiva; mentre egli, con pochi uomini, si avviò alla volta di Troina dove incontrò il papa, ed entrambi lieti si accolsero con reciproca venerazione. Da parte del papa, con l’apostolica benedizione, si fecero gli uffici di Maria, cioè spirituali; da parte del conte si provvide, seguendo Marta, alle cose terrene; s’incontrarono all’alba del giorno seguente e discussero sulla questione che aveva spinto il papa a venire.

Pochi mesi prima, attraverso i nunzi Nicola, abate di Grottaferrata, e il diacono Ruggero, il papa aveva paternamente rimproverato l’imperatore di Costantinopoli, Alessio, perché aveva proibito ai latini cristiani che abitavano nel suo stato, di sacrificare col pane azzimo, obbligando l’uso del pane lievitato, secondo il rito greco, cosa che la nostra religione non consente affatto. E l’imperatore, accettando umilmente il suo rimprovero, aveva invitato il papa inviandogli con gli stessi legati una missiva scritta a lettere d’oro, a venire a Costantinopoli assieme a latini dotti in materia religiosa, in modo che in un concilio si disputasse tra Greci e Latini, al fine di risolvere quello scisma in seno alla chiesa di Dio, con una comune definizione, cioè circa il fatto che i Greci sacrificavano con pane fermentato e i latini con pane azzimo; aggiunse che l’unica chiesa doveva avere un unico rito; confermò che avrebbe dato il suo assenso alla discussione comune e che si sarebbero osservate le decisioni emesse con autentiche sentenze alla presenza di Greci e Latini: cioè se sacrificare con pane azzimo o con pane lievitato. Stabiliva inoltre il termine entro cui il papa si doveva presentare: un anno e mezzo. Il conte suggerì al papa di partecipare al concilio, per troncare un così grave scisma in seno alla chiesa di Dio. Ma lo impedivano i nemici della Chiesa che a Roma minacciavano il papa, e a causa di loro la partenza era sconsigliata. Il conte onorò il papa con molti doni e lo lasciò andare. Ritornò a Butera, dove fu così rovinoso per i nemici, da costringerli alla resa. Quindi si impadronì della città che assettò a suo piacimento e mandò in esilio i suoi maggiorenti, in modo che, abitando lontano, non avessero possibilità di architettare qualche fraudolenta sollevazione”.

La cronaca di Malaterra – rigorosamente di parte e scritta con chiaro intento celebrativo della figura del conquistatore normanno – passa quasi sotto silenzio il principale motivo del viaggio papale, la richiesta di aiuto per prendersi il potere che gli spetta a Roma. Ma, impostazione e finalità a parte, a leggerla attentamente accredita l’idea d’una presenza a Troina del papa di giorni, al limite di parecchi giorni o settimane, in ogni caso non di otto mesi.

Butera venne presa nello stesso 1088 e nel 1091 fu la volta di Noto, ultimo baluardo musulmano ad arrendersi.

Gli storici ritengono che nel summit di Troina si siano gettate le basi (o comunque si sia cominciato a parlare) della “Apostolica Legazia”, confermata dal papa a Salerno il 5 luglio 1098, la facoltà riconosciuta a Ruggero ed ai suoi successori di nominare i vescovi in Sicilia e Calabria. Così come è molto probabile che a Troina il papa abbia riconosciuto a Ruggero il titolo di Conte di Sicilia.

Facciamo ora un salto in avanti di 323 anni per dare notizia della seconda ospitalità di una testa coronata. A Troina nel 1411 per pochi giorni ed in due riprese soggiornò la Regina Bianca.

Bianca di Navarra o Bianca I di Navarra o Bianca di Évreux, nata a Pamplona il 6 luglio 1387 e deceduta a Santa María la Real de Nieva il 3 aprile 1441, fu regina regnante di Navarra dal 1425 al 1441. In precedenza, in seguito a matrimonio, era stata per sette anni anche regina consorte di Sicilia dal 1402 al 1409 e reggente. Vedova, sposò poi il futuro re di Aragona, Valencia, Sardegna, Corsica, Maiorca e Sicilia, conte di Barcellona dal 1458 al 1479, Giovanni II, di quasi vent’anni più giovane di lei. Dagli storiografi siciliani è chiamata semplicemente la regina Bianca. Era la terzogenita del re di Navarra Carlo III, detto il Nobile, e di Eleonora Enriquez, secondogenita del re di Castiglia e León, Enrico II.

Concentriamoci sulla presenza in Sicilia di Bianca. Tutto origina dal solito matrimonio di stato così ricorrente a quei tempi. Il 21 maggio 1402 sposò per procura Martino I detto il Giovane, unico re di Sicilia da quando era morta, nel 1401, la regina Maria di Sicilia (figlia del re Federico III).

Nel dicembre di quello stesso anno – dopo che tra agosto e ottobre erano deceduti i due fratelli maschi mentre la sorella maggiore, Giovanna, veniva dichiarata ufficialmente erede al trono di Navarra – Bianca fu riconosciuta seconda nella linea di successione al trono. Il regno di Navarra si estendeva su di un territorio comprendente l’area settentrionale e di nord-est della penisola iberica. Centro più importante la città di Pamplona, capitale del regno.

Bianca, quindicenne, raggiunse la Sicilia nell’autunno del 1402 e il 26 dicembre 1402 celebrò il matrimonio effettivo con Martino il Giovane (figlio primogenito del re di Aragona Martino I il Vecchio e della sua prima moglie Maria de Luna).

Divenuta regina di Sicilia, Bianca prese possesso, il 17 luglio 1404, della Camera Reginale spettante alla moglie del sovrano, costituita dai possedimenti di Siracusa, Paternò, Mineo, Vizzini, Lentini, Francavilla, Randazzo.

Quando il marito nell’estate del 1408, a Messina, su richiesta di suo padre, il re d’Aragona Martino I il Vecchio (il Regno d’Aragona con capitale Barcellona comprendeva invece i territori a sud-est della penisola iberica), organizzò un esercito per riconquistare agli aragonesi la Sardegna, la giovane Bianca venne nominata reggente del regno di Sicilia (“vicaria”) ed esercitò il potere reale con un certo polso, lottando contro alcuni nobili che volevano approfittarsi dell’assenza del re.

Martino il Giovane arrivò in Sardegna nell’ottobre del 1408 e il giudice di Arborea e visconte di Narbona, Guglielmo III, marciò verso Cagliari dove l’esercito aragonese aveva posto la sua base. Gli eserciti si scontrarono a Sanluri, il 4 luglio 1409. Martino vinse la battaglia, i genovesi dovettero lasciare l’isola e il giudicato tornò ad essere vassallo dell’Aragona. Però Martino il Giovane contrasse la malaria. Il 25 luglio morì e fu sepolto nel duomo di Cagliari. Aveva 35 anni.

Dopo la morte di Martino il Giovane, suo padre, Martino I di Aragona, divenne anche re di Sicilia col nome di Martino II e confermò la nuora, Bianca, rimasta vedova a 22 anni, come “vicaria” del regno, dichiarandola reggente.

A Parigi, sempre nel 1409, Bianca si fidanzò con Ludovico di Baviera detto il barbuto (1368-1447), figlio primogenito di Stefano III di Baviera, duca di Baviera-Ingolstadt, e di Taddea Visconti. Non si arrivò al matrimonio perché l’accordo fu rotto prima della fine dell’anno.

Nel 1410, Bianca venne promessa a Edoardo III di Bar, figlio del duca Roberto I e di Maria di Francia.

Quando, l’anno successivo, anche il suocero Martino I di Aragona morì, la giovane Bianca si ritrovò a lottare contro il potente Bernardo Cabrera, conte di Modica, che voleva sposarla per impadronirsi di tutta la Sicilia.

Si formarono due partiti avversi: quello della regina Bianca, con il suoi fedeli Sancio Ruiz de Lihori, Antonio Moncada, Enrico IV Rosso, Riccardo Filangieri e Vitale Valguarnera; il secondo guidato dall’influente Cabrera, con Giovanni Montalto, Antonio Barresi e altri.

Nel luglio 1413, alla morte della sorella Giovanna, Bianca divenne anche erede al trono di Navarra.

Neppure il matrimonio con Edoardo III di Bar andò in porto perché il duca nell’ottobre 1415 fu ucciso nella Battaglia di Azincourt.

Bianca, intanto, lasciò la Sicilia in quello stesso 1415 per rientrare in Navarra dove, essendo la maggiore delle figlie superstiti, il 28 ottobre 1416, a Olite, suo padre, Carlo III il Nobile la nominò ufficialmente principessa ereditaria di Navarra.

Dopo l’accordo del 5 novembre 1419, la ventinovenne Bianca il 5 dicembre 1416 sposò per procura, a Olite, il duca di Peñafiel e futuro re di Aragona Giovanni II, figlio secondogenito di Ferdinando I. Giovanni, di almeno dieci anni più giovane di Bianca, si recò in Navarra per incontrare la futura moglie e il 10 giugno (18 giugno secondo altre fonti) del 1420 il matrimonio fu celebrato nella cattedrale di Pamplona.

Alla morte del padre, Carlo III, nel 1425, Bianca divenne regina di Navarra, unitamente al marito Giovanni. La regina Bianca e il re Giovanni furono incoronati, a Pamplona, il 15 maggio 1429.

Bianca lasciò il governo nelle mani del consorte, che in quegli anni era coinvolto nelle questioni interne della Castiglia assieme al fratello, Enrico (erano detti gli infanti d’Aragona), e dopo le sconfitte subite, nel 1428-1429, la Navarra dovette cedere alla Castiglia alcune zone di confine.

Bianca morì a 53 anni il 3 aprile 1441 a Santa María la Real de Nieva, in Castiglia, dove il marito Giovanni era rientrato per riprendere la guerra civile accanto al fratello Enrico contro il conestabile del regno, Álvaro de Luna.

Bianca a Martino I di Sicilia diede un solo figlio, a cui fu dato lo stesso nome del padre, Martino, morto precocemente a circa un anno dalla nascita. Dal matrimonio di secondo letto con Giovanni II di Aragona nacquero invece quattro figli: Carlo di Navarra (1421-1461), che salì sul trono di Navarra alla morte della madre; Giovanna di Aragona (1423-1425); Bianca di Aragona o di Navarra (1424-1464) che nel 1440 sposò Enrico IV di Castiglia, divenendo regina consorte; Eleonora (1425-1479) che sposò, nel 1436 il conte di Foix Gastone IV e alla morte del padre divenne regina di Navarra.

Sin qui le notizie biografiche sulla regina Bianca. Veniamo ora alle vicende che, anche se per pochi giorni, intrecciano l’azione della ventiquattrenne Bianca con la sua presenza a Troina nel 1411. Sulla vicenda il nostro Nicola Schillaci ha scritto nel 2014 un pregevole saggio intitolato “Il passaggio dalla terra di Trayna della regina Bianca – notizie e avvenimenti riferiti ai secoli XIV e XV”. Una ricerca storica molto accurata, come è nelle corde di Schillaci, tutta da leggere. Oltre a riferire sul passaggio a Troina della reggente di Sicilia infatti documenta ampiamente su vicende, storia, economia e società della cittadina nel XIV e XV secolo. Scrive Schillaci:

“Alla morte del marito, avvenuta in Sardegna nel 1409, la carica vicariale le viene contestata da Bernardo Cabrera, conte di Modica, maestro giustiziere del regno, ed alla morte, a poco meno di un anno, anche del suocero Martino II “il Vecchio”, re d’Aragona, Bianca si ritrova al centro di una complessa situazione politica. i due regnanti defunti, non avendo eredi diretti, lasciano nell’Isola un periodo di disordine fomentato dal Cabrera che, rivendicando a per sé il vicariato, riesce a creare una vera e propria guerra civile, con rivolte e discordie, inducendo alla ribellione numerose città in precedenza fedeli alla Corona; dall’altro, la regina Bianca cerca di ricompattare le forze fedeli alla monarchia, attraverso l’appoggio dell’aristocrazia, rappresentata principalmente dai Moncada, dai Rosso, dai Filangeri e dai Lanza. Il Cabrera, infatti, poneva la questione anche in termini giuridici, considerando la regina Bianca decaduta da ogni potere e rivendicandone il diritto di reggenza.

Con la sua corte itinerante ed inseguita dal Cabrera, Bianca attraversa più volte, in lungo e in largo, la Sicilia, emanando decreti e capitoli in favore delle universitates o delle terrae (ossia delle città e delle cittadine, n.d.r.) che dimostrano fedeltà. Dalla sua fitta corrispondenza – redatta in siciliano illustre o in latino basso medievale – tra il 1411 e il 1412, si ha notizia che la stessa abbia sostato o sia passata da diverse località, quali Aidone, Agira, Gagliano, Nicosia, Randazzo, Adernò, Taormina, Piazza, tra le più vicine a Troina. (…)”.

“Durante il passaggio della regina Bianca da Troina – continua Schillaci – vengono scritte ed inviate dalla stessa quattro lettere, datate rispettivamente 31 maggio (indirizzata al capitano e ai giurati della terra di Randazzo), 1 giugno (indirizzata al capitano della terra di Nicosia), 2 giugno (indirizzata ad Aloysio Rosso barone di Cerami) e 30 agosto 1411 (indirizzata a diversi signori e baroni del Regno), mentre almeno dodici missive vengono inviate da altre città e terre, indirizzate per la maggior parte al capitano di Troina ed, in qualche caso al “capitaneo, castellano, iuratis, ac aliis officialibus et universitati Trahine”. Da tali lettere si ricava l’immagine di una Troina città demaniale con tutti i privilegi e la fiducia della sovrana(…)”.

La regina raggiunge Troina il 31 maggio 1411. “Viene ricevuta con tutti gli onori. Nell’ambito della terra di Trayna essa sosta tre giorni, dal 31 maggio, appunto, al 2 giugno, perché una ulteriore lettera è già inviata da Randazzo il 3 giugno: “…essendo heri in Trayna, undi fummu richiputi altamenti…”.

“Il 30 agosto – conclude Schillaci – la regina, nuovamente a Troina, invita mediante lettera, diversi signori e baroni del regno a recarsi presso la terra di Caltanissetta, al fine di liberare il castellano della terra di Naro, fedele alla casa Aragonese, tenuto prigioniero da Bernardo Cabrera”.

Facciamo ora un altro salto in avanti di 124 anni. Nel 1535 a Troina soggiornò Carlo V d’Asburgo, re di Spagna e Paesi Bassi ed imperatore del Sacro Romano Impero che comprendeva l’attuale Germania, Austria più altri territori. Il sovrano più potente dell’epoca – sui cui domini, in Europa e nelle colonie delle Americhe, “non tramontava mai il sole” – reduce da una spedizione a Tunisi attraversò la Sicilia e poi l’Italia meridionale. A Troina nel mese di ottobre sostò tre giorni alloggiando nel convento di San Francesco, ossia nei locali fino a non molti anni fa adibiti prima a sede della scuola media Don Bosco e poi a sede della biblioteca comunale. Secondo una altra versione sostò solo per poche ore. Veniva da Nicosia, da dove si era mosso con il suo seguito il 18 ottobre. Trentacinquenne, ricevette dai troinesi anche un consistente donativo di denaro, 900 ducati, parte dei ben 250.000 che il sovrano ebbe consegnati nei mesi di questa prolungata visita. Donazioni obbligate per i sudditi visitati; donazioni che aiutano a risollevare le casse imperiali, piuttosto vuote ormai a seguito della preparazione di imprese militari. Ma in questo trionfale viaggio in uno dei suoi tanti domini (Italia meridionale e Sicilia appartenevano allora al Regno di Spagna) Carlo era contrariato – riferiscono le cronache del tempo – perché si era accorto che gli erano spuntati i primi capelli bianchi. A Palermo, all’inizio di questo suo tour in Sicilia, era stato ospitato nel Palazzo Aiutamicristo che sorge nella attuale via Garibaldi.

In epoche recenti è lungo l’elenco di cardinali e ministri che, soprattutto per la presenza dell’Oasi, sono stati ospitati nella città per qualche giorno o qualche ora: tra i primi Pappalardo, Fagiolo, Laghi, il francese Poupard (responsabile del dicastero della Cultura della Santa Sede), il cardinale Segretario di Stato Parolin; tra i secondi Tanassi e Storace. L’elenco in effetti sarebbe molto più lungo. Anche ministri di paesi stranieri e governatori di regioni facenti parte di stati federali sono stati ospiti dell’Oasi a Troina. Nel 2003 ha fatto visita a Troina il principe ereditario Emanuele Filiberto di Savoia. Non sarà mai re d’Italia (meno male…) ad ogni modo si tratta pur sempre di sangue reale.

Ma torniamo alle tiare ed alle corone. Dunque è accertato che un papa, una regina ed un imperatore siano saliti fin quassù. E se all’elenco dovesse aggiungersi un re? Si proverà a dimostrare questa tesi con l’ausilio della ricostruzione di un autorevole storico inglese e di un ragionamento logico. Per farlo ritorniamo indietro di parecchi secoli, nella Sicilia della guerra del Vespro.

Nel 1266 il papa francese Clemente IV aveva incoronato re di Sicilia il principe Carlo d’Angiò, anche lui francese. Numerose città rifiutarono l’incoronazione e si schierarono a favore di Corradino di Svevia, re appena sedicenne. Per ovvia inesperienza Corradino non era in grado di fronteggiare il più esperto Carlo. Il 29 ottobre 1268 fu sconfitto e decapitato in piazza del Mercato a Napoli. L’esercito angioino, composto da baroni ed avventurieri assetati di terre, occupò la Sicilia. Comincia così la signoria (o mala signoria) degli Angioini. Gli abitanti furono sottoposti a nuove tasse e perfino alle cosiddette “collette regie”. Gli usi civici subirono drastiche restrizioni. Il malessere provocato dalle vessazioni sfociò nella ribellione passata alla storia come i Vespri Siciliani.

Avendo a che fare con intricate questioni dinastiche, facciamo un passo indietro, al 1250. Quell’anno la morte di Federico II di Svevia priva la Sicilia della sua guida energica ed illuminata. Ed è premessa di un declino che investe la politica, l’amministrazione, la tranquillità stessa dell’isola. Le tensioni interne sfociarono in discordie civili e vendette familiari per la contesa di quanto era rimasto della Sicilia normanna. Il potere papale si espresse anche in campo politico: la corona di Sicilia passò al principe inglese Edmondo di Lancaster che, per dieci anni, detenne il titolo di “re di Sicilia per grazia di Dio”. Nel 1261 Edmondo fu deposto dal papa Clemente IV il quale, desideroso di affermare la propria supremazia feudale, convinse Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi il Santo, a perorare la sua causa sostituendo Edmondo. Incoronato a Roma cinque anni dopo, Carlo partì per sottrarre il trono a Manfredi, figlio naturale di Federico II e di Bianca Lancia. Carlo d’Angiò attaccò con il suo esercito Manfredi e lo vinse il 25 febbraio 1266 nella battaglia di Benevento. Manfredi rimase ucciso sul campo. Due anni dopo, alla notizia che l’ultimo degli Hoenstaufen, il giovane Corradino – figlio dell’erede legittimo di Federico II, Corrado IV, morto ancora prima di Manfredi – si apprestava ad invadere il regno con l’appoggio delle città ghibelline italiane, i siciliani si sollevarono. Soltanto Palermo e Messina rimasero in mano agli Angioini. Ma, come narrato, Corradino fu sconfitto a Tagliacozzo, non lontano da L’Aquila, fatto prigioniero, giudicato e decapitato.

Le violenze della riconquista angioina scatenarono il risentimento dei siciliani che nel 1282 esplose nella rivolta dei Vespri. Il furore popolare è una violenta espressione del desiderio di indipendenza, al quale contribuiscono la frustrazione per la scarsa considerazione dimostrata dal re a vantaggio di Napoli e la durezza del fiscalismo del regime angioino. Nata come rivoluzione popolare, la rivolta si trasformò ben presto in movimento per l’autonomia municipale e divenne, infine, un conflitto sul piano economico tra gruppi di baroni tedeschi e francesi. In questo quadro prese forma anche la lotta contro gli Angiò da parte degli Aragonesi. Due i protagonisti: un esiliato, Giovanni da Procida, nemico giurato degli Angioini, e re Pietro d’Aragona, deciso a rivendicare i diritti sul trono di Sicilia di sua moglie Costanza, figlia di Manfredi e dunque nipote di Federico II. A spianargli la strada la richiesta di aiuto da parte di un gruppo di notabili siciliani in rivolta contro Carlo d’Angiò. Aiutato dai baroni re Pietro d’Aragona sbarcò a Trapani il 30 agosto 1282.

La scintilla che aveva acceso il fuoco della guerra del Vespro è molto nota, fa parte da secoli della storia popolare della Sicilia. Ecco la cronaca “minuto per minuto” dell’avvenimento, un po’ enfatica e retorica, che attinge anche alla vivida narrazione dello storico Michele Amari (forma e linguaggio sono infatti piuttosto datati). Il 31 marzo 1282, all’indomani della Pasqua e dunque nella giornata del Lunedì dell’Angelo, a Palermo nella chiesa di Santo Spirito si celebrò un’altra festa religiosa. Quel giorno dovette registrarsi un ennesimo oltraggio alla libertà e allora il popolo si stancò di sopportare. In questa chiesa, che sorgeva a mezzo miglio dalle mura meridionali della città, affluivano quel Lunedì di Pasqua, nelle ore del vespro, seguendo una vecchia consuetudine, gli abitanti di Palermo. Erano gruppi di uomini e donne, tranquille famiglie, accolte pacificamente da amici che, dimenticando le sofferenze del giogo, volevano per qualche ora esser felici; e chi andava nel tempio che risuonava del canto delle vergini, chi ne usciva dopo le preghiere, altri passeggiavano nella circostante campagna ricoperta dal primo verde, altri facevano merenda sui prati con i primi fiori della primavera, e altri ancora intrecciavano danze e facevano sentire il suono degli strumenti musicali. Ed ecco, a turbar la letizia della festa campestre, apparire, non desiderati, gruppi di Francesi, che si mescolavano alle brigate, volevano partecipare alle danze e, non contenti di questo, iniziarono a usare un contegno poco licenzioso con le donne al cospetto dei padri, degli sposi e dei fratelli. I più vecchi fra i cittadini consigliarono gli stranieri a lasciare in pace le donne, ma i più giovani rimproverarono aspramente i Francesi; nel loro viso si leggeva chiaramente che avevano la voglia di menare le mani e di rispondere alle provocazioni. Insospettiti dallo spavaldo contegno dei cittadini, credendo che fossero armati, alcuni si diedero a frugarli, altri con bastoni e scudisci cominciarono a percuoterli se si rifiutavano. I Siciliani fremevano per l’ira, quando ad un tratto si vide una giovane maritata di rara bellezza, accompagnata dal consorte e seguita dai parenti, avviarsi al tempio. Un francese di nome Drouet, avvicinatosi a lei per vedere se teneva armi nascoste, frugò il petto alla giovane donna che per la paura e la vergogna cadde svenuta in braccio allo sposo. Un grido di collera si levò allora dalle labbra del marito offeso: “Ah! Muoiano! Muoiano questi Francesi!” e subito, dalla ressa, che cominciava a farsi intorno, avanzò un giovane siciliano e, impadronitosi della spada di Drouet, con la sua stessa arma lo trafisse.

A quella vista, l’ira compressa nei petti scoppiò, l’odio da molto tempo maturato e tenuto nascosto, esplose violento, gli occhi si iniettarono di sangue, le mani strinsero convulsamente i coltelli, altri si armarono di pietre raccolte in terra, e un solo grido si alzò, che fu ripetuto rabbiosamente da mille bocche: “Muoiano i Francesi!”. In breve attorno alla chiesa s’ingaggiò una mischia furibonda; la campagna, che un momento prima era allietata da mense, da canti e da liete danze, risuonò ora di urla minacciose, di lamenti, di rantoli, di grida di donne spaurite; si rovesciarono le tavole, sassi di ogni dimensione solcarono l’aria, balenarono lame di coltelli e di spade, roteavano bastoni, e iniziò a macchiarsi di sangue il verde dei prati.

A dispetto del fatto che erano ricoperti di armi, i Francesi furono sopraffatti e dopo una lotta sanguinosa caddero tutti. La morte dei provocatori non calmò lo sdegno dei provocati; ormai il sangue sparso voleva altro sangue, la vittoria accresceva l’ira, la vista poi dei parenti e degli amici uccisi spingeva ad un’altra strage. Impadronitisi delle armi dei vinti, i sollevati si avviarono verso la città lanciando il pauroso grido di “Morte ai Francesi!”; e quanti stranieri incontravano tanti ne massacrarono.

In breve la rivolta penetrò a Palermo, serpeggiò furiosa in tutte le vie, rumoreggiò in tutte le case, guidata da un certo Ruggero Mastrangelo, alimentata dall’odio e dalla sete della vendetta.

Non fu battaglia contro un nemico che si difendeva, ma una caccia spietata agli Angioini che non tentavano neppure di opporre resistenza e, circondati dalle turbe inferocite, porgevano le armi e imploravano pietà. Si frugarono le case, le caserme, i magazzini, ogni angolo; si narra che il popolo incontrando qualche sconosciuto, per accertarsi della sua nazionalità, gli imponeva di proferire la parola dialettale “ciciri” e davanti ad una storpiata pronuncia forestiera lo passavano per armi.

Per i malcapitati Francesi non furono ricoveri sicuri nemmeno i templi e i conventi dei Minori e dei Predicatori; gli altari furono macchiati di sangue e i frati francesi che erano nei chiostri furono trucidati pure loro; né il sesso o l’età né le preghiere o i pianti ottennero dalla folla rabbiosa pietà, perché i Siciliani ricordavano le patite sofferenze, le prepotenze, i ratti, i furti, gli stupri, e quei ricordi eccitavano il popolo alla vendetta e alla strage. Alle madri furono strappati dal petto i lattanti e sfracellati; non furono risparmiate le incinte e “alle siciliane ingravidate dai francesi – narra l’Amari – con atroce supplizio le aprivano il corpo e facevano scempio con i sassi il frutto di quel mescolamento di sangue d’oppressori e d’oppressi”.

Al primo segno del tumulto della folla il giustiziere Giovanni di San Remigio si era chiuso nel palazzo sperando forse di resistere; ma il popolo circondò la casa, urlando contro il ministro della tirannide, sfondò le porte, irruppe dentro le stanze ed avrebbe fatto a pezzi il carnefice se questi, favorito dalle prime ombre della sera, ferito in volto, non fosse riuscito a montare in sella e a prendere la fuga in compagnia di due suoi familiari.

La notte non pose fine alla strage; continuò spietata e infuriò ancora il mattino dopo; cessò solo quando non vi fu più un francese nella città. Duemila, altri dicono tremila, altri ancora quattromila, Francesi caddero in quella prima rivolta e all’inizio i cadaveri furono lasciati sulle vie, poi qua e là furono scavate delle grandi fosse e riempite di corpi insanguinati.

Non era ancora cessato l’eccidio quando, nella stessa notte del 31 marzo, il popolo, riunitosi a parlamento, dichiarò Palermo libera dalla dominazione angioina e stabilì di reggersi a comune, formare una federazione con altri e mettersi sotto la protezione della chiesa. Ruggero Mastrangelo, Arrigo Barresi, Nicola d’Ortoleva e Niccolò d’Ebdemonia furono eletti capitani del popolo.

Scrive Amari: “Alle prime luci dell’alba, sul terreno insanguinato, tra una rumoreggiante calca di armati, con la sublime pompa del tumulto, s’inaugurò il magistrato repubblicano; i suonatori diedero fiato alle trombe e migliaia di voci gioiosamente gridarono “buono stato e libertà!”. L’antico vessillo della città, l’aquila d’oro in campo rosso, fu spiegato a nuova gloria, e, in ossequio alla Chiesa, vi aggiunsero le chiavi ”.

Primo pensiero dei Palermitani fu di inseguire il giustiziere, il quale, rifugiatosi nel forte castello di Vicari, con una numerosa guarnigione francese si era velocemente preparato alla difesa. Circondato il castello, i Palermitani intimarono ai difensori di arrendersi, promettendo salva loro la vita e libera partenza per le coste della Provenza; ma quelli rifiutarono e tentarono una sortita disperata, che finì tragicamente; catturato e giustiziato il “giustiziere” Giovanni di San Remigio, trucidati tutti gli altri, fu occupato il castello.

Così si iniziava la famosa rivolta che doveva passare alla storia col nome di “Vespro siciliano”. Più che come avvenimento in sé, e nel suo esito fortunato, la ribellione al “Vespro” assunse il suo significato storico e un incancellabile ricordo nella coscienza collettiva come pochi altri fatti.

Si spargeva intanto rapidamente per tutta l’isola la notizia della rivoluzione palermitana e dovunque il vasto incendio portava la scintilla che procurava altri incendi, che prestissimo divamparono in tutta la Sicilia. La prima a seguire l’esempio della capitale fu Corleone, che giurò alleanza con Palermo il 3 aprile, ed eletto capitano del popolo un certo Bonifacio, lo s’inviò con tremila uomini a distruggere le vicine tenute reali, gli armenti di Carlo, ad espropriare i castelli in mano degli Angioini e a fare a pezzi tutti i Francesi dei territori vicini. In pochissimo tempo un buon tratto d’isola era sgombro di stranieri e i capitani del popolo delle terre liberate, riunitisi in parlamento a Palermo, infiammati dalle ardenti parole di Ruggero Mastrangelo, decisero di fare sollevare contro Carlo tutta la Sicilia. A Palermo si radunarono le milizie della rivoluzione che, divise in tre schiere, furono inviate la prima verso occidente, la seconda verso oriente, la terza nell’interno; mentre la fama precorreva le aspirazioni degli animi anche in coloro che erano digiuni di arte bellica.

Poi senza ulteriori contrasti ogni territorio rimosse il nome di re Carlo, in piena intesa, anche se non cessò lo spargimento di sangue dei francesi. A questi diedero la caccia per monti e boschi; li espugnarono nei castelli, li perseguitarono in cento modi, con tale rabbia che ai pochi scampati nelle mani dei popolani venne in odio la vita; dalle più munite rocche, dai luoghi più nascosti il popolo voleva i francesi nelle proprie mani per linciarli; e alcuni piuttosto che finire a pezzi si lanciavano dall’alto di una torre.

“In qualche luogo le stragi dei Francesi non ci furono – precisa Michele Amari – furono soltanto scacciati e, spogliati di ogni cosa, si rifugiarono a Messina. In altri posti furono perfino generosi, come con Guglielmo Porcelet, feudatario o governatore di Calatafimi. Lui era stato giusto ed umano rispetto agli altri colleghi, e nell’ora della vendetta, giunti a Calatafimi i rivoltosi di Palermo, non toccarono né lui né i suoi, lo rimandarono semplicemente in Provenza da dove era venuto: il che mostra che qualche volta il popolo è capace di contenere anche i suoi eccessi”.

Baluardo della tirannide straniera era però rimasta Messina dove risiedeva il vicario d’Orleans, che disponeva di parecchi uomini. Ma la città dello Stretto non rimase a lungo sotto il giogo francese; il popolo aspettava solo il momento buono per vendicarsi delle sofferenze patite. Stimolati dall’esempio di Taormina, che qualche giorno prima aveva fatto a pezzi gli Angioini, e con l’aiuto dei palermitani approdati con una galea, il 28 aprile i Messinesi si levarono a tumulto e al grido di “Morte ai francesi!” uccisero quanti stranieri trovarono, inalberarono il vessillo della città, costrinsero Eriberto d’Orleans a chiudersi nel castello di Matagrifone ed elessero capitano del popolo il nobile Baldovino Mussone.

Così, un mese circa dopo i “Vespri” palermitani, quasi tutta l’isola fu libera dal giogo angioino (fa eccezione Sperlinga, le cui vicende meritano un approfondimento nelle pagine seguenti). Le città si diedero un governo repubblicano, si federarono tra loro e decisero di non ritornare più sotto l’odiata dominazione di Carlo. E si prepararono a fronteggiare un ritorno offensivo del re vettovagliando la strategica città di Messina. Inviarono inoltre presidi di uomini e di navi a Siracusa, Augusta, Catania, Milazzo, Patti, Cefalù.

Carlo d’Angiò si trovava presso il pontefice quando gli fu portata la notizia della rivoluzione siciliana. Corso a Napoli e informato della gravità della situazione, si diede a fare preparativi per sottomettere l’isola e richiese perfino l’aiuto di uomini e di denaro al re di Francia. Aiuti finanziari glieli fornì pure papa Martino IV (ricordiamo che era stato eletto grazie a Carlo) il quale tentò a favore del re le armi spirituali e, ad Orvieto, il giorno dell’Assunzione ordinò a tutta la cristianità di non prestare aiuto di qualsiasi sorta ai ribelli. Li minacciò di scomunica se non tornavano all’obbedienza dell’Angioino. Ma i Siciliani non si lasciarono intimorire né dall’ira del sovrano né dalle minacce del pontefice.

Pietro III, re d’Aragona (la vasta regione orientale spagnola, uno dei regni in cui era frazionata allora la penisola iberica) nel 1282 aveva 43 anni. Era nato nel 1239 (secondo altre fonti l’anno seguente, il 1240), primogenito di Giacomo I e di Violante d’Ungheria. Nel 1262, ventitreenne, aveva sposato Costanza, figlia di Manfredi ed erede dei diritti al trono di Sicilia. In conformità al testamento del padre, a Pietro spettavano i territori di Aragona, Catalogna e Valencia. Dopo la sua incoronazione in un primo tempo dovette stroncare una rivolta dei Mori di Valencia ed una invasione del conte di Foix. Nel 1278 riuscì a costringere il fratello Giacomo, re di Maiorca, al giuramento feudale. Poi si dedicò ad una fruttuosa politica estera che influenzò il corso della politica europea. Nel 1280 intraprese una spedizione a Tunisi e da lì, dopo i Vespri, si trasferì in Sicilia.

Pietro si imbarcò con 22 galee ed altre navi minori. A Trapani venne accolto da Palmiero Abate che presentò al sovrano ricchissimi donativi ed aprì i suoi granai alle affamate soldatesche catalane. Secondo le cronache del tempo il sovrano era al comando di un esercito di 9.000 uomini.

Scrive con enfasi nella sua “Storia popolare del vespro siciliano” Gaspare Amico:  “Quando poi Pietro fece il suo ingresso trionfale in Palermo, la gazzarra s’udì fino a Monreale. Dopo tre giorni, adunatosi un parlamento di baroni e cavalieri di tutte le terre siciliane, poiché non è più esatto parlar di popolo e di comuni, Pietro domandava se gli era stata offerta davvero la corona di Sicilia. Un cavaliere rispondeva di sì e tutto il parlamento faceva eco. “Degnasi ora il Re – ripigliava quel cavaliere – accordar le franchigie di Guglielmo il Buono”. Pietro le accordava e prometteva i diplomi. E la solennità terminava con un reale banchetto. D’incoronazione non si parlò, che sarebbe stato sacrilegio il farlo a dispetto del Santo Padre, il quale ancora non sapeva Pietro essere ben altrove che sul trono di Sicilia.

Di tutto quest’armeggio aveva già ricevuto sollecite notizie Carlo d’Angiò; e non è a dire se ne prendesse rovello, mentre facevano prova si infelice il suo furore e le sue armi formidabili contro la spregiata Messina. Ora l’Aragonese marciava contro di lui. A Palermo questi pochi Catalani, venuti laceri e bruciati dalla campagna africana, parvero una meschinità contro il fiorito esercito di Carlo. Onde i Palermitano decisero confidare unicamente nelle forze proprie e dell’aragonese soltanto usufruire il consiglio e il nome regio. Urgendo i casi di Messina, chiesero dunque a Pietro che li conducesse alla pugna. E a Pietro non parve vero di trovar acceso tanto fuoco in quei petti. Chiamati quanti Siciliani erano atti alle armi, diè loro un convegno a Randazzo, e a quella volta ei si diresse colle sue milizie, mentre spingeva verso il Faro la flotta. Così Pietro d’Aragona, nuovo Re di Sicilia, usciva in campagna contro Carlo d’Angiò, col disegno di chiuderlo per terra in una fossa attorno a Messina, tra i monti e il Faro, e per mare tagliargli colla flotta la ritirata in Calabria. Per dichiarare a Carlo la guerra spedì con buona scorta di armati tre oratori; che, accostatisi al campo, chiesero salvacondotto per mezzo di due Carmelitani. Carlo, immaginando di che trattatasi, rispose che lo avrebbe dato fra due giorni”.

Puntualizza Michele Amari: “Ansiosamente i Siciliani chiedean d’essere condotti a Messina che a tutti tardava liberar la generosa città. Pietro usando questo ardore allor mandò intorno la grida: che tutt’uomo da 15 a 60 anni si trovasse a Palermo entro un mese, armato e con vivande per 30 giorni (D’Esclot dice data la posta a Randazzo). Ed ei con molta prestezza con le milizie più spedite mosse per la strada di Nicosia e Randazzo, seguendole, ciascuno come potea, le altre schiere che ivi s’adunarono e fece veleggiare il naviglio alla volta del faro”.

In pratica milizie siciliane ed aragonesi per raggiungere Randazzo, luogo stabilito del raduno di tutti i siciliani che rispondono alla chiamata alle armi, percorrono più o meno il tracciato dell’odierna statale 120, la “via della montagna” come veniva chiamata allora.

Amari non cita Troina in queste vicende (giova ricordare come siano numerosi gli autori che, nel passato, hanno scritto della guerra del Vespro; oltre ai citati, Giacchetto Malespini, Giovanni Villani, Saba Malaspina, Muntaner, Ballone da Neocastro, Nicolò Speciale e molti altri; in epoche più recenti i medievalisti siciliani Francesco Giunta e Salvatore Tramontana). Cita invece Troina un autorevole storico inglese, sir Steven Runciman. Nato nel 1903 e morto novantasettenne nel 2000, storico e linguista, Runciman è stato uno dei massimi studiosi del mondo bizantino medievale e delle Crociate. Ma si è lasciato sedurre anche dalla storia medievale siciliana. Nel 1958 pubblica a Cambridge “The Sicilian Vespers”. Il volume è stato tradotto e pubblicato in Italia dall’Editrice Dedalo di Bari nel 1971 (prima edizione) con il titolo “I Vespri Siciliani. Storia del mondo mediterraneo alla fine del XIII secolo”.

La ricostruzione che di quelle intense settimane fa Runciman è lucida, scevra da retorica ed esaltazione sicilianistica, e di assoluto rigore storico, come nella migliore tradizione della magistrale storiografia inglese. Seguiamola.

“Con le loro sole forze i Siciliani avevano portato a termine la strage di Palermo e stavano eroicamente difendendo Messina. La loro sollevazione era stata però il risultato di una grande congiura: è probabile che abbiano ricevuto armi da Genova e dall’Aragona; è certo che ricevettero oro da Bisanzio; ma avevano combattuto da soli. Il loro ardente odio per l’oppressore aveva dato ad essi forza sufficiente fino a quel momento; il futuro si presentava più incerto. Re Carlo era tenuto in scacco davanti a Messina, ma non era stato sconfitto. Poteva aspettare ancora rinforzi: altre navi s’attendevano da Venezia; i cavalieri francesi guidati dal conte d’Alençon si stavano concentrando ed erano in procinto di scendere in Italia; il papa si rifiutava di riconoscere la rivolta. Se si voleva allontanare il pericolo di una riconquista angioina, era necessario ottenere l’aiuto straniero; ed il re d’Aragona, con la moglie che per diritto ereditario rivendicava il trono di Sicilia e con un esercito che attendeva non lontano, era l’uomo che avrebbe potuto aiutare i ribelli. Ma re Pietro era ambizioso quasi quanto Carlo. Entrambi avevano costruito un sistema di alleanze; e quando vennero in conflitto la guerra assunse proporzioni troppo ampie perché non si perdessero subito di vista gli interessi della Sicilia.

Dopo essere sbarcato a Trapani re Pietro ed il suo esercito marciarono su Palermo, mentre la flotta li seguiva costeggiando. Il sovrano arrivò a Palermo il 2 settembre; avrebbe voluto essere incoronato re di Sicilia senza indugio, ma l’arcivescovo di Palermo era morto e quello di Monreale, che era fautore dei Francesi, era fuggito. Perciò Pietro dovette accontentarsi d’essere proclamato re il 4 settembre al cospetto del Comune. In cambio egli promise solennemente che avrebbe rispettato i diritti ed i privilegi di cui i Siciliani avevano goduto ai tempi di Re Guglielmo il Buono. Quindi ordinò a tutti gli uomini abili alle armi di Palermo e della Sicilia occidentale d’unirsi al suo esercito per marciare con lui in soccorso di Messina. Alcuni giorni dopo mosse lentamente verso oriente attraverso Nicosia e Troina nel centro dell’isola, mentre la flotta procedeva di pari passo con lui lungo la costa settentrionale. Aveva già mandato a re Carlo due ambasciatori, Pietro di Querault e Rodrigo di Luna, per ordinargli di ritirarsi dall’isola.

Passarono alcuni giorni prima che Carlo sapesse dello sbarco di Pietro. A Nicosia due frati Carmelitani videro gli ambasciatori aragonesi, sulla via interna che da Palermo porta a Messina, e scoprirono la natura della loro missione. In gran fretta tornarono da Carlo al quale riferirono la notizia. I Messinesi, rinchiusi nella città, erano ancora all’oscuro delle novità e l’assalto generale ordinato da Carlo per il 14 settembre fu un tentativo di sopraffare la città prima che i suoi abitanti venissero a sapere che un alleato era a portata di mano. Anche le condizioni di pace offerte ad Alaimo da Lentini (divenuto nel frattempo Capitano della città dopo la deposizione di Baldovino Mussone) immediatamente dopo il fallimento dell’attacco rappresentarono un tentativo per risolvere la questione prima che si venisse a sapere dell’invasione aragonese.

Il 16 settembre gli ambasciatori di re Pietro giunsero alla presenza di re Carlo che li ricevette con mala grazia, ma non rispose subito alle loro richieste. Furono invitati a ripresentarsi il giorno dopo. Essi approfittarono del tempo lasciato a loro disposizione per avvicinarsi il più possibile alle mura di Messina e gridare che il loro re si trovava già a Palermo. Ma si sospettò che fossero agenti del nemico e nessuno prestò loro fede, escluso il deposto Capitano Baldovino Mussone. […]

Carlo, prima di rispondere agli ambasciatori, discusse con i suoi consiglieri. Aveva appreso che l’esercito e in particolare la flotta di Pietro erano possenti; egli, invece, non poteva fidarsi completamente della propria flotta; gli equipaggi mercenari non ispiravano fiducia e persino i Genovesi fraternizzavano apertamente con i Siciliani. Non gli sorrideva l’idea di essere sorpreso a Messina, al cospetto d’una città indomita, e di vedersi minacciata la ritirata attraverso lo stretto. Né desiderava rischiare una battaglia campale prima dell’arrivo dei suoi alleati francesi. Tra i suoi consiglieri finì col prevalere Tommaso d’Acerra. Questi era figlio di una delle bastarde di Federico II e, come tale, era sospetto agli Angioini; ma Carlo fu allora propenso a riporre in lui la sua fiducia. Tommaso pose l’accento sulla situazione militare: sarebbe stato di gran lunga meglio, disse, attendere i rinforzi occupando una salda posizione sulla sponda continentale dello stretto; i Siciliani si sarebbero presto stancati degli Aragonesi; allora si sarebbe potuta compiere una nuova invasione dell’isola, scegliendo preferibilmente un punto meno guarnito di Messina.

Quando il 17 settembre Carlo s’incontrò di nuovo con l’ambasceria aragonese, nella sua lunga risposta respinse le rivendicazioni di Pietro sulla Sicilia, ma fece intendere che era pronto ad evacuare le sue forze dall’isola per quanto non garantisse che un giorno non sarebbe tornato senza alcun preavviso. Una settimana dopo, quando s’accorse che la sua ambigua risposta non aveva trattenuto Pietro dall’avanzare lentamente su Messina, cominciò a trasferire il suo esercito e il materiale bellico in Calabria. Ormai i Messinesi sapevano dell’invasione aragonese. Un mercante genovese, che personalmente aveva visto re Pietro nell’isola, giunse a Messina e riferì la notizia ad Alaimo. Ci fu grande esultanza tra i cittadini; quando videro l’esercito nemico prepararsi a levare il campo per imbarcarsi effettuarono delle sortite. L’esercito non aveva completamente lasciato ancora l’isola quando sopraggiunsero le prime truppe aragonesi. Nella confusione i comandanti angioini riuscirono ad imbarcare la maggior parte dei loro uomini sulle navi trasporto; ma alcuni furono lasciati indietro e vennero massacrati; un’immensa quantità di armi e salmerie fu abbandonata.

Il 2 ottobre re Pietro fece il suo ingresso trionfale in Messina. Nella sua marcia da Palermo non si era affrettato, al pari di re Carlo non era propenso a provocare una battaglia campale e voleva dare all’esercito angioino il tempo di passare in Calabria, in modo da potere conquistare l’intera isola senza colpo ferire. Non era affatto molto sicuro degli umori dell’isola, ma era ben consapevole che gli isolani lo apprezzavano soprattutto per il suo esercito e la sua flotta. Perciò non era ancora disposto a rischiare di danneggiare l’uno o l’altro”.

Fin qui Runciman.

È in questo contesto storico che si colloca l’avventura vissuta per diversi mesi da un pugno di uomini d’arme asserragliati nel castello di Sperlinga. Una decisione “controcorrente”, memorabile, rimasta scolpita, anche materialmente, in una iscrizione: “Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit”. Come scrisse Tommaso Fazello nel 1620, “Sperlinga è una fortezza munitissima, posta nell’altezza di un colle, e questa tra tutte le città e castella di Sicilia non volse acconsentire alla strage de’ Francesi; il che si celebra ancora per un proverbio con questi versi: “Sola Sperlinga acconsentir non volse a quel che fe’ tutta la Sicilia insieme”.

Il feudatario di Sperlinga continua a resistere anche quando i Francesi avevano abbandonato Messina e si erano ritirati in Calabria. L’assedio al castello di Sperlinga proseguì fino alla primavera dell’anno seguente, il 1283, e durò pertanto un anno, mese più mese meno.

Rileggiamo questo avvenimento nell’accurata ricostruzione dello storico sperlinghese Salvatore Lo Pinzino.

L’assedio del castello dagli sperlinghesi veniva considerato un fatto vero, mentre gli storici anteriori all’Amari lo consideravano un fatto leggendario poiché non si conoscevano documenti al riguardo. Ma Michele Amari trovò dei documenti nell’archivio della corona d’Aragona in Napoli sulle vicende di questo assedio.

Quando la ribellione contro la dominazione angioina si diffuse come una macchia d’olio per tutti i paesi della Sicilia, una guarnigione di francesi dovette trovarsi nel castello di Sperlinga (verosimilmente una guarnigione con un gruppo di francesi tra gli altri, n.d.r.); allorché giunse anche lì la notizia della guerra, la guarnigione aveva tre possibilità per sfuggire all’ira popolare: a) scappare; b) arrendersi; c) asserragliarsi dentro. Saggiamente decisero di chiudere le porte del castello. Se fossero fuggiti, sarebbe stata la fine, come avvenne per gli altri francesi nel resto dell’isola; se si fossero arresi (forse) sarebbero periti ugualmente per la furia dei rivoltosi.

Il primo documento di cui siamo a conoscenza è datato Messina, 10 ottobre 1282; con esso re Pietro d’Aragona ordina al giustiziere di Val di Castrogiovanni (Enna) di fare assediare il castello di Sperlinga, dove si trova Pietro di Almanonno con altri ribelli; si raccomanda ancora che l’assedio deve essere serrato in modo tale che nessuno possa entrare ed uscire dal castello, e che i soldati si attengano ai voleri e provvedimenti del castellano della fortezza di Enna, Roderico Eximene de Luna.

Dallo scoppio della ribellione alla data in cui partì l’ordine d’assedio passarono più di sei mesi. In questo periodo è da ipotizzare che la guarnigione francese fosse al sicuro nel castello di Sperlinga e potesse giovarsi di nascosto dell’aiuto di signori locali per gli approvvigionamenti.

A. Ragona nel suo recente lavoro su Gualtiero di Caltagirone scrive, tra l’altro, sull’assedio di Sperlinga: “(…) che gli assediati di Sperlinga erano delle forze autonome, non collegate affatto col governo angioino. Resistevano per paura di cadere in mano al nemico per essere trucidati”.

Nel terzo documento ritrovato dall’Amari, datato 19 gennaio 1283, re Pietro scrive a Russimanno di Nicosia, comunicandogli di avere ricevuto le sue lettere, lo loda per ciò che ha fatto con gli altri di Nicosia contro i ribelli chiusi nel castello di Sperlinga. Lo invita quindi a non desistere dall’assedio perché, se riuscirà ad espugnarlo, sarà premiato e gli assediati puniti e lo esorta a prendere provvedimenti contro quei nicosiani che riforniscono di viveri i ribelli. Evidentemente era stato scoperto che agli assediati giungevano viveri dall’esterno e che erano di Nicosia coloro che portavano del vitto; per questa ragione l’assedio si è protratto per circa un anno.

La resa della guarnigione avvenne dopo il 19 gennaio 1283 e prima del 4 agosto dello stesso anno. È una deduzione logica in quanto fino alla lettera del 19 gennaio gli assediati ancora resistevano ma dal contenuto di un altro documento del 4 agosto si apprende che si erano arresi.

Dopo la resa Pietro di Almanonno si potè recare a Napoli dall’Angioino mentre gli altri reduci passarono a Geraci, in Calabria, dove ebbero da re Carlo d’Angiò concessioni di terra. Furono, nonostante tutto, fortunati. Come risulta da un documento del 27 settembre 1283, Carlo, principe di Salerno, rivolgendosi al Capitano di Geraci, Giovanni de Ravello, fa donazione a “dieci serventi benemeriti (di cui due soli francesi che avevano difeso il castello di Sperlinga nella rivoluzione di Sicilia) di poderetti del valore di sei once d’oro ciascuno, nelle terre confiscate ai ribelli di Geraci in Calabria; due consanguinei del Lamanno (Pietro de Lambisco e Poncio de Alamanno) ebbero delle terre per dieci once d’oro ciascuno.

Giova, ancora, ricordare che il singolare fatto riguardante Sperlinga è stato immortalato anche da Torquato Tasso nella sua “Gerusalemme conquistata”:

 

“Né quei di Cefalù restaro a tergo,

né fur quei di Messina in guerra stanchi,

o di Catanea, ove ha il sapere albergo, 

o di Sperlinga , al fin pietoso a’ Franchi,

o quei che presso avean Cariddi e Scilla

od Etna che pur anco arde e sfavilla”

 

Questi i fatti, ricostruiti mettendo insieme diverse versioni, dalle più popolari alle più accurate pagine di saggistica storica.

Dunque Pietro III, alla guida del suo esercito, per raggiungere Randazzo – punto di raccolta della leva siciliana – era passato per Troina, stando a quanto scrive Runciman. Due a questo punto le ipotesi: che le milizie, sovrano compreso, siano sfilate a valle della fortezza non ostile senza che né il sovrano né il suo seguito siano entrati nella roccaforte, anche per una sosta di poche ore o d’una notte; oppure che il sovrano ed i suoi più stretti collaboratori con la sua guardia (è da escludere con l’intero esercito perché troppo numeroso) all’altezza dell’abitato abbia fatto una digressione e si sia inerpicato fino alla porta di Baglio (o del Bajuolo come sarebbe più corretto definirla) od una delle altre tre porte di Troina e sia entrato nella fortezza in un giorno del mese di settembre del 1282. Porta di Baglio – è il caso di precisarlo – non coincide con l’attuale strada d’accesso a via Conte Ruggero, accanto all’edificio del Municipio; ora murata, si scorge facilmente salendo per via Roma, di fronte, nella rientranza sulla destra, cinquanta metri prima di quella che erroneamente definiamo porta di Baglio.

Le cronache locali – molto lacunose in questo periodo – nulla sanno indicare al riguardo. Solo poche righe riprese dal solito prezioso storico Vincenzo Squillaci ci fanno sapere che “durante la guerra del Vespro Troina seguì la parte di Pietro d’Aragona ed inviò al campo di Randazzo viveri e arcieri sotto la condotta di un tal Giovanni Celamida, troinese”.

Troina nel 1282 ancora si leccava le ferite delle distruzioni che Federico II le aveva inferto. Lo “Stupor mundi” – come i contemporanei avevano definito per la sua cultura e la sua intelligenza Federico – nel 1233 era andato giù pesante. L’anno prima Riccardo di Montenegro, investito dall’imperatore Federico II della carica di maestro giustiziere del regno, si portò a Messina, dove emanò un ordine di grave pregiudizio al libero commercio della seta, della quale i Messinesi facevano gran traffico. Rimasero perciò costoro molto malcontenti e, sollecitati da un certo Martino Ballone, nel mese di agosto del 1232 tumultuando presero le armi e costrinsero il Montenegro ad uscire precipitosamente dalla città. La sedizione non rimase circoscritta dentro le mura di Messina ma si estese a Catania, Siracusa, Nicosia, Centuripe ed a molti altri centri del Valdemone, Troina compresa. È il caso di ricordare come Troina coltivasse un solido legame con Messina, sanzionato peraltro dall’intenso rapporto con il vescovado messinese. E siccome la ribellione andava sempre più estendendosi, l’imperatore decise di portarsi egli stesso in Sicilia per punire i ribelli ed estinguere con la sua presenza la fiamma della rivolta che il malcontento dei messinesi aveva acceso. Egli si trovava allora a combattere, in favore del Pontefice, contro i Romani che assediavano Viterbo. Liberata dunque questa città dai nemici, con un esercito si porta a Messina, dove con poca fatica entrò negli ultimi giorni di aprile dell’anno 1233: punì i principali autori della sedizione, e specialmente il Ballone, che fu preso e pubblicamente bruciato. Ridusse poi all’obbedienza Catania, Siracusa e Nicosia. Centuripe, che si era mostrata ferma nella rivolta, fu cinta di strettissimo assedio nel mese di giugno dello stesso anno, espugnata e distrutta dalle fondamenta. Anche Troina, Capizzi e Montalbano – secondo l’Amari, che cita l’Anonimo presso Huillard-Breholles – furono “distrutte dalle fondamenta” e “con la distruzione delle case e il bando dei cittadini” sforzati a dimorare in altre città. Ad Augusta, fondata dallo stesso imperatore nel 1231, Federico trasferì gli abitanti dei centri ribelli (Centuripe, Nicosia, Troina, Capizzi ed altri ancora).

Nel 1282, mezzo secolo dopo, Troina era tornata già da tempo ad essere ricostruita, viva ed abitata. Ma certamente una mazzata come quella inferta da Federico II – sintesi di grande personalità e stimoli culturali accanto ad una spietata concezione del potere: credendo, come credeva, che la sua autorità venisse da Dio, Federico considerava la ribellione un peccato che giustificava le pene più severe – non si riassorbe facilmente. Ad ogni modo, se re Pietro III è effettivamente entrato a Troina per trascorrervi qualche ora, qualche giorno o qualche notte (non sappiamo) lo ha fatto in un arroccato castello inurbato che andava dall’attuale Matrice a piazza Santa Lucia e comprendeva quanto meno la parte alta di Scalforio.

A conoscere la Troina del 1282 ci aiutano due storici contemporanei, Enrico Pispisa dell’Università di Messina ed il francese Henri Bresc – dal 2005 cittadino onorario di Troina – dell’Università di Parigi Nanterre. Vi risiedono, con una convivenza a tratti precaria, latini e greci. Sembra dimostrata la presenza, forse più nelle campagne del circondario che nel borgo, di discreti nuclei di saraceni.

“La distruzione operata dalle milizie di Federico II non dovette essere totale – osserva Pispisa – perché già nella prima età angioina il centro appare nuovamente in attività. Durante l’epoca di Manfredi, comunque, di Troina non si hanno notizie di alcun genere”.

Negli anni del regno di Carlo I d’Angiò Troina continuava ad essere terra demaniale. Come diremmo oggi, qualche suo abitante “aveva fatto strada”: Nicola di Troina nel 1270 era “dominus” di Briatico, in Calabria e un tale Silvestro di Troina, poi sistematosi a Palermo, era “magister massariarum Siciliane ultra flumen Salsum”. Nel 1272 il casale Carbone apparteneva ad un tale Guglielmo de Amigdalia.

Quanti abitanti contava allora Troina? Circa 500. Il conto è presto fatto. Nel 1277 gli Angioini, che in fatto di imposizione fiscale non si facevano pregare, indissero una contribuzione generale nel Regno – la “generalis subventio” – e il borgo fu tassato per 16 onze. Considerando che la contribuzione avveniva in ragione di 6 tarì per fuoco (nei censimenti medievali la parola fuoco indica un nucleo familiare) si deduce che il centro era abitato da 96 nuclei familiari “e quindi – spiega Pispisa – da oltre 400 – 500 abitanti”. Non erano pochi ma neanche molti se si pensa che nel 1439 saranno censiti circa 400 fuochi: una spettacolare quadruplicazione della popolazione in appena 162 anni. Nicola Schillaci  nel suo “In terra Trayne” – citando S.R. Epstein “Potere e mercati in Sicilia. Secoli XIII – XIV”, Torino 1996 – riporta dati demografici divergenti da quelli di Pispisa: “Nel 1277 gli abitanti formano 160 fuochi, triplicati un secolo dopo: nel 1374 se ne contano 512, fino a raggiungere i 600 nel 1439”. Una possibile spiegazione, per mettere d’accordo entrambe le tesi e numeri tanto discordanti, potrebbe limitare la popolazione quantificata da Pispisa in quella residente nel centro abitato e quella quasi doppia che conta Schillaci nella popolazione non solo del borgo ma anche dei casali e delle campagne del territorio troinese, allora ben più esteso dell’attuale territorio comunale.

Nel 1282 un contributo in natura ci permette di avere notizie sulle condizioni delle campagne troinesi: la città consegnò 50 salme di frumento, 100 di orzo, 20 bovini, 200 ovini e 40 suini. La consegna avviene per corrispondere ad un fodro. Con la parola fodro nel medioevo si indica il diritto del sovrano e del suo seguito di ottenere ospitalità e ricovero durante il transito attraverso un territorio. Si tratta con tutta probabilità del fodro per il passaggio proprio di Pietro III.

“Il fodro del 1282 conferma la relativa povertà del territorio di Troina e la precarietà delle coltivazioni nonché dei casali (un casale è un gruppo di case senza cinta di mura n.d.r.) e delle terre vicine – commenta Bresc – Regalbuto viene chiamata a fornire 20 salme di frumento e 40 di orzo, lo stesso Bolo e Capizzi, meno ancora Cerami (rispettivamente 15 salme di frumento e 30 di orzo) mentre Alcara, San Fratello, San Marco e Randazzo non sembrano avere alcuna disponibilità di cerealicoltura. Al contrario Nicosia con 400 salme di frumento ed 800 di orzo è l’anticamera delle ricche messi delle valli di Castrogiovanni e Mazara”

L’allevamento appare la ricchezza principale. Prevalentemente ovino a Troina, come a Regalbuto e, ancor, più, a Randazzo. “Se il bosco di Troina non fornisce molti porci al fodro, ed è una sorpresa, la causa  – continua Bresc – ne è probabilmente il suo stato di regia foresta, riservata per la caccia e per il legname da costruzione delle navi”.

L’espansione dei territori municipali appare come una necessità vitale. Bresc rileva come le cifre suggeriscano che Randazzo abbia ereditato in quel periodo la più gran parte del territorio di Maniace ed abbia gestito una politica di annessione di quello originario di Troina. Santa Lucia e Cutò, poi Bolo ed anche Carcaci sono passati temporaneamente sotto il controllo della universitas, ossia del comune, di Randazzo, che fa riconoscere l’esclusiva della vendita del proprio vino, non solo probabilmente per profitto immediato ma anche come atto simbolico capace di consolidare i diritti di uso civico sull’erba dei casali.

Lo stesso movimento di espansione verso le terre meridionali che si può notare nei patrimoni delle chiese assume dunque un doppio significato: ricerca di terreni atti al seminato e ricerca di pascoli. I suoli delle montagne troinesi sono argillosi, in generale poveri, instabili, sottomessi ad una intensa erosione sulle pendici. Pochi i suoli bruni, più ricchi e ben drenati, adatti al vigneto. La ricerca di buone terre porta verso i suoli bruni di Magari, Regalbuto, Feudo Grande, Buscemi. “Queste condizioni globalmente mediocri – conclude Bresc – spiegano lo scarso valore delle terre nel 300”.

A meno di un improbabile ritrovamento in archivi siciliani, napoletani, francesi e spagnoli di nuovi documenti inediti sulla guerra del Vespro e l’attraversamento della Sicilia da parte del sovrano aragonese nonché nuovo re di Sicilia, non potremo avere la conferma di cosa effettivamente successe quando il sovrano passò sotto le mura di Troina. Dovesse prevalere la seconda delle due ipotesi tracciate, nel palmarès della cittadina bisognerebbe aggiungere ad Urbano II, Bianca e Carlo V anche Pietro III.

Sappiamo invece con certezza cos’altro fece re Pietro dopo quei giorni in cui “sfiorò” o entrò a Troina. Come narrato, papa Martino IV, che appoggiava Carlo d’Angiò, l’aveva scomunicato dichiarandolo privo di ogni diritto al trono e aveva predicato contro di lui addirittura una crociata. Le fazioni di Aragona, alle quali restavano pochi mezzi a causa dell’impresa siciliana, sfruttarono l’occasione per ottenere nel 1283, in un cosiddetto “privilegio generale”, l’estensione dei loro diritti, soprattutto del loro influsso sul governo del regno di Aragona. Ma Pietro, grazie ad un accordo con il re di Castiglia (altro regno della penisola iberica) e con l’imperatore di Bisanzio, poté difendere con successo la Sicilia dalle mire di ritorno di Carlo d’Angiò. Un esercito crociato che nel 1285, sotto la guida di Filippo III di Francia, nipote di Carlo d’Angiò, era penetrato in Aragona, subì una sconfitta disastrosa per sua mano. Poco tempo dopo, l’11 novembre dello stesso anno, il sovrano – a cui viene riconosciuto il titolo di Pietro III il Grande – morì appena quarantaseienne a Villafranca del Penadès, presso Barcellona.

Carlo d’Angiò l’aveva preceduto nella tomba di dieci mesi. Alleatosi con il papa e con Filippo III di Francia, aveva combattuto contro il rivale aragonese nella prospettiva mai sopita di riprendersi la Sicilia. La sua flotta però venne sconfitta a Napoli il 5 giugno 1284. Morì a Foggia il 7 gennaio 1285. A cinquantasette anni, mentre cercava di raccogliere fondi ed uomini per la prosecuzione della lotta contro l’odiato Pietro che aveva sottratto dai suoi domini la perla più preziosa, la Sicilia.

 

Pino Scorciapino

 

 

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Papa Urbano II (1040? – 1099) (immagine tratta da Wikipedia)

 

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Re Pietro III d’Aragona e di Sicilia (1240-1285) (immagine da Wikipedia)

 

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Regina Bianca di Navarra e Regina consorte di Sicilia (1387-1441) (Wikipedia)

 

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Carlo V d’Asburgo, Re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero (1500-1558) (Wikipedia)

 

∙Bibliografia

Goffredo Malaterra “Imprese del Conte Ruggero e del fratello Roberto il Guiscardo”, Flaccovio Editore, Palermo, 2000.

Bianca di Navarra (1387 – 1441), www.wikipedia.it, 2022.

Nicola Schillaci “Il passaggio dalla terra di Trayna della regina Bianca – notizie e avvenimenti riferiti ai secoli XIV e XV”, 2014.

Gaspare Amico “Storia popolare del Vespro siciliano”, Edizioni La Fiaccola, Ragusa.

Michele Amari “La guerra del Vespro siciliano”, Lugano, 1852.

Steven Runciman “I Vespri Siciliani – Storia del mondo mediterraneo alla fine del XIII secolo”, Editrice Dedalo, Bari,  1971.

Salvatore Lo Pinzino “Sperlinga”, 1989.

J.L.A. Huillard-Breholles “Historia diplomatica Federici secondi”, Parigi, 1852.

Filippo Anzaldi “Memorie storiche di Centuripe”, Edigraf,  Catania, 1981.

Enrico Pispisa “Troina nel Medioevo: politica, economia e società”, Atti del convegno su “Troina medievale”, 16 -18 maggio 1992, Dattiloscritto conservato nella Biblioteca comunale.

Henri Bresc “Troina e il Valdemone: territorio e insediamenti”, Atti del convegno su “Troina medievale”, 16 -18 maggio 1992, Dattiloscritto conservato nella Biblioteca comunale.

Nicola Schillaci “In terra Trayne. Toponomastica e paesaggio nel territorio di Troina dal Medioevo all’Età Moderna”, Edizioni Novagraf, 2006.

 

La prima edizione di questo saggio è stata pubblicata nel volume “Conterranei miei Atto II”, TipoEdizioni, 2009.

Questa seconda edizione, riveduta e ampliata, è stata scritta nel mese di Novembre del 2022.

 

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