Le “casene” di villeggiatura tra ‘700 e ‘800

A pochi chilometri dal centro abitato di Troina, in un’area ricca di verde costituita da secolari uliveti e querceti, nella fascia di territorio gravitante attorno ai ruderi del cenobio basiliano di San Michele Arcangelo, si possono scorgere dei fabbricati rurali, un tempo luogo di svago e di ritrovo dell’aristocrazia e della borghesia locale. Il monastero, fondato dal conte Ruggero, è oggi ridotto a ruderi; dotato nel corso dei secoli di privilegi ed ampi possedimenti, venne definitivamente abbandonato dai monaci verso la metà del XVIII secolo, per essere riedificato, più ampio, in prossimità del paese.

Ultimo atto, questo, di una complessa ed onerosa azione di ristrutturazione ad opera dell’abate Lorenzo Gioeni e Cardona, palermitano, uomo di profonda cultura, il quale rivendicò tutti i beni usurpati fino ad allora all’abbazia, le esenzioni ed i privilegi. L’attività di questo abate si esplicò, in particolare, nei primi decenni del Settecento, nel campo dell’edilizia, pochi anni dopo il devastante terremoto del 1693, facendo erigere e riedificare chiese, fabbricati e masserie dislocati nei vasti possedimenti fondiari del monastero, compreso il riattamento dello stesso cenobio.

Tutto il territorio circostante l’ameno colle Carinei, costituito dalle località denominate Ordine, Piana, Loggione e Sotto Badia, quest’ultima rappresentata dai fondi Lavina, Carmine e San Silvestro, venne suddiviso in lotti produttivi, aventi una specializzazione colturale, attraversati e riuniti da una strada, per buona parte lastricata, una sorta di viale tutt’ora esistente, intramezzata a metà percorso da una fonte, la Sorgente Lavina, e da una edicola sacra dedicata alla Madonna. In ogni lotto di terreno, dell’ampiezza media di almeno tre salme, venne poi edificato o, in alcuni casi, ristrutturato ed ampliato, un edificio, una via di mezzo tra la villa e la masseria, denominato comunemente casena (o casina), concepito in funzione della coltura praticata nello stesso fondo.

Occorre precisare che a partire dal XVII secolo, aristocrazia e clero iniziano ad utilizzare la campagna anche come luogo di delizie e, dalla seconda metà del secolo successivo, comincia l’epoca della villeggiatura vera e propria, scegliendo posti facilmente raggiungibili, fuori dall’ambito urbano.

Secondo uno schema generale, ogn’una delle casene viene concepita prendendo a riferimento un edificio principale, di solito a due elevazioni, ed una serie di edifici secondari, limitrofi od attigui al primo, costituiti dall’alloggio per il massaro, dalle stalle, dai magazzini, dai locali di trasformazione dei prodotti derivanti dalla coltivazione del fondo: il palmento (pistaturi) per la pigiatura delle uve ed il frantoio (trappitu) per la molitura delle olive; in qualche caso vi è la presenza anche di un mulino ad acqua per la macina dei cereali. Gli edifici, caratteristici per la loro planimetria ad elle, se combinati con altre strutture avrebbero originato, in alcuni casi, una corte centrale: il baglio.

Le casene, nella loro sobria composizione, si presentano dalle linee semplici e squadrate, ognuna con una propria peculiarità costruttiva; elemento di spicco, per qualcuna di esse, è lo scalone. Un po’ ovunque si riscontrano conci di pietra lavorati, alcuni asportati dal vecchio monastero; analogie si evincono con mensole e fregi presenti in edifici del centro abitato: tali sono alcuni elementi dell’ex villa Polizzi-Testuzza con il prospetto della chiesa di Sant’Agostino.

Pur essendo stati edificati o riattati a partire dai primi anni del Settecento, i manufatti in questione risentono dell’influenza della cosiddetta casena di delizie cinquecentesca e, di questa, ne continuano la tradizione; sul finire del secolo, però, la tipologia architettonica degli stessi subisce una svolta sostanziale dovuta all’avvento della cultura neoclassica ed alle esigenze innovative nei confronti del Tardobarocco.

A partire dalla seconda metà dell’800, l’acquisizione di questi luoghi da parte della locale borghesia terriera farà sì che alcuni degli aspetti sopra menzionati verranno alterati. Gli originari lotti di terreno saranno ulteriormente frazionati per fare spazio ad altri fabbricati, sempre di pertinenza familiare che, infine, snatureranno l’originaria impostazione data dai monaci.

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Troina, contrada Sotto Badia, casena risalente al 1765 (disegno dell’autore).

 

Tutta l’area continuerà ad essere, comunque, un’area dedicata alla villeggiatura ed allo svago, luogo di ospitalità per scrittori ed artisti, ma anche una zona nella quale si contano avvenimenti tristi, legati allo sfruttamento dei braccianti.

Degna di menzione risulta la casena datata 1765 appartenuta alla famiglia Sollima, ubicata nel fondo denominato San Silvestro; come pure la casena Polizzi-Testuzza, nella cui chiesetta dedicata a San Giuseppe è incisa la data 1731; di un certo interesse le altre casene dislocate nelle contrade Piana e Sotto Badia, qualcuna con successivi elementi realizzati in stile Liberty.

Una impostazione similare, risalente allo stesso periodo, viene data al territorio di pertinenza dell’abbazia di Sant’Antonio di Scarvi; in particolare, la chiesa di contrada Scarvi, recante la data 1702, assieme alla villa e locali annessi, in un primo tempo posseduti dai Di Napoli, nel corso dello stesso secolo verranno riattati ed ampliati dal marchese Silvestro Polizzi; infine, gli stessi edifici subiranno sostanziali rimaneggiamenti, a cura della famiglia Sollima, nel 1919. Altri esempi provengono dai fabbricati ubicati nelle contrade Liso, Jaciti, Lercara e Cappuccini Vecchi.

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Panoramica di contrada Sotto Badia con alcune delle ville gentilizie

 

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 Particolare dell’antica strada lastricata in c.da Sotto Badia.

 

La presenza di costruzioni attestate nel territorio di Troina a partire dal XIV secolo, viene correlata con l’espansione della vite prima, del gelso ed, infine, dell’ulivo. In tale data si ha menzione della presenza di abitazioni in terra Trayne in contrata Vallis Sancti Michaelis, ubicate, cioè, nell’odierna contrada Sotto Badia; come pure viene menzionata una vigna nella contrada que dicitur Planum de Oliva, oggi Piana San Michele.

In questo periodo la viticoltura risulta abbastanza presente nel territorio troinese, diffusa soprattutto in prossimità del centro abitato, ancora in piccoli appezzamenti. Contratti agrari a lungo termine tra ente ecclesiastico e privato, prevedono la costituzione di vigneti in terreni incolti, da dissodare, in cui le spese di impianto e di coltivazione gravano interamente sull’enfiteuta, mentre il proprietario riceve un canone annuo, il cosiddetto censo.

L’olivicoltura, invece, assume un notevole sviluppo a partire dal XVI secolo; ceppaie di grandi dimensioni, presenti a tutt’oggi, indicherebbero la vetustà degli impianti originari. Fin dall’inizio l’ulivo non costituisce una coltura specializzata, venendo allevato in promiscuo con la vite; successivamente, con la sua espansione, nasce l’esigenza di costruire nuovi trappeti e di potenziare quei pochi ancora esistenti.

Non ci è dato sapere se gli oleastri che crescevano spontaneamente nell’ambito del territorio furono innestati dagli stessi monaci o venne consentito anche a privati, come documentato in altre zone della Sicilia, l’ingentilimento di tali piante; la nuova forma di gestione fondiaria avrebbe dato origine ad una proprietà promiscua in cui il privato, diventato proprietario delle sole piante, era tenuto a pagare anche in questo caso, al pari del vigneto, un censo annuo.

Generalmente, in uno stesso appezzamento vennero impiantati, in consociazione, viti ed olivi: con la scomparsa delle viti a fine ciclo produttivo, di solito un quarantennio, sarebbero rimaste le piante di ulivo. In alcuni fondi, infatti, erano contemporaneamente presenti palmento e trappeto.

Oltre al vigneto ed all’oliveto ed, in alcuni casi, anche al gelseto per l’allevamento del baco e la produzione della seta, espressione tipica del giardino mediterraneo sono i viridaria, appezzamenti di terreno a coltura intensiva, spesso in irriguo, sui quali vegetavano alberi da frutto (gelsi, agrumi, noci, pistacchi, melograni, fichi, ecc.), ma anche piante ortive, officinali ed ornamentali, nel complesso definite utili e dilettevoli.

L’area circoscritta ancora oggi da mura a secco, con un portale d’ingresso limitrofo alla strada, in località Piana, ci da l’esempio di quello che un tempo doveva essere un giardino di delizie che, in termini locali, si tradurrebbe nella cosiddetta chiusa o luocu. In tale ambiente vegetava un vero e proprio giardino, un luogo costituito da viali alberati che conducevano in una zona attrezzata composta da sedili di pietra, intagliati nello stile dell’epoca.

Oggi, una parte di questo patrimonio edilizio di pregevole valore, inserito fra l’altro in una zona ad elevata valenza paesaggistica, risulta abbandonato e privo di manutenzione, senza un piano di recupero che lo leghi alla fruizione del verde e dell’ambiente in genere (es. aree attrezzate, turismo rurale, percorsi della salute, ecc.).

Intanto, ogni giorno che passa, ladri e vandali riescono ad asportare e rubare mensole, capitelli e suppellettili presenti negli edifici rurali, effettuando danni a tutto un patrimonio che invece dovrebbe essere salvaguardato non solo dai privati ma da tutta la collettività locale.

 

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Troina, contrada Sotto Badia, casena risalente al XVIII secolo (disegno dell’autore).

 

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Troina, la masseria di contrada Piana; nella parte alta i ruderi dell’antico cenobio basiliano.

 

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Contrada Sotto Badia. Il portale d’ingresso in uno dei fondi agricoli.

 

Nicola Schillaci

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