Il Fast Fashion che ci fa risparmiare sulla pelle dei lavoratori e del pianeta

La nuova moda-capriccio che sta devastando il pianeta sulla pelle dei lavoratori sfruttati: il Fast-Fashion.
Capitava, e fortunatamente continua a capitarmi, che mia madre mi raggiungesse in camera con un mucchio di maglioni e pantaloni che, dato il loro volume corposo, una volta posati sulla prima superficie disponibile ad accoglierli facevano un tonfo tale da attirare totalmente la mia attenzione: era un mucchio di vestiti di mio padre, vestiti che lui non indossava più. Vuoi la coincidenza che a me quei vestiti calzassero, vuoi perché sono attratto dai capi che strizzano un occhio al vintage, ma il pensiero di dar vita nuova a degli indumenti che altrimenti avrebbero continuato a riempirsi di polvere mi affascina da sempre. Noi troinesi, noi siciliani, siamo detentori, insieme a tanti altri popoli, di una cultura eccezionale, quella del riutilizzo. Non ci piacciono gli sprechi e tendiamo a dar vita nuova a tutto ciò che sembra non funzionare più. Ma in un mondo globalizzato così come il nostro la cultura del riutilizzo crolla dinanzi alla cultura del consumo.
L’imperativo dei nostri giorni è quello tracciato da Bauman nel libro dal titolo “Consumo, quindi sono”. Questo paradigma è centrale nella riflessione, perché è il dogma che aleggia sugli acquisti in senso lato e sugli acquisti online in riferimento al fenomeno del Fast-Fashion.
Nel 2008 nasce una nuova piattaforma digitale destinata a cambiare radicalmente il nostro modo di rinnovare l’armadio: Shein. La sua crescita è stata talmente parossistica da far sì che Shein sia oggi il colosso a livello mondiale del Fast Fashion: i ricavi dell’e-commerce hanno sfondato i 23 miliardi di dollari nel 2022. Il punto di forza è il prezzo dei prodotti più che accessibile, al punto che potresti aprire l’app e comprare tranquillamente una maglietta a €3.
Chi acquista su piattaforme simili lo fa perché risparmia. Ma siamo come può una maglietta provienente dall’altra parte del mondo costarmi solo 3€?
1. Costa così poco poiché i lavoratori sono più che sfruttati. La giornalista Amrani è riuscita ad introdursi in due dei settecento stabilimenti produttivi cinesi di Shein e lei, con la sua telecamera nascosta, ha scoperto una realtà terrificante: i lavoratori hanno turni disumani che arrivano fino a 18 ore consecutive al giorno, in un ambiente immondo sotto il profilo igienico-sanitario. Gli stessi lavoratori hanno “diritto” ad un giorno di ferie al mese (sì, solo un giorno) e a una paga da fame (circa €540, un buon prezzo per lavorare 18h al giorno per 30 giorni su 31, no?!).
2. Bloomberg, che ha seguito con attenzione il fenomeno che ha monopolizzato la vendita online di vestiti, ha portato alla luce due elementi agghiaccianti: in primo luogo ritiene che le magliette di cotone vendute da Shein sono frutto del lavoro forzato a cui è sottoposta una minoranza (gli Uiguri, popolazione musulmana di una regione cinese da tempo oppressa da Pechino) e, come secondo scoop, il 95,2% dei prodotti di Shein contiene microplastiche.
3. I prodotti utilizzati per realizzare appieno il Fast Fashion sono più che scadenti: Greenpeace denuncia che certe sostanze chimiche superano i limiti fissati dall’UE e questo coctkail di elementi è nocivo a contatto costante con la pelle.
4. Shein, e aziende simili, vendeno smisuratamente e questo comporta la produzione di rifiuti il cui smaltimento è più che un problema grave. Si stima che ogni secondo nel mondo un intero camion carico di tessuti venga smaltito o incenerito. Al settore della moda, a livello globale, si imputa il 10% di responsabilità sulle emissioni di carbonio.
5. Per realizzare una singola maglia in cotone si sprecano circa 2700 litri d’acqua. Per non parlare dei prodotti chimici, impiegati nel processo intensivo di produzione dei capi, che vengono assorbiti poi dal terreno finendo con l’inquinare le falde acquifere.
Insomma, dai dati in oggetto (fonte Il Corriere della Sera) emerge una realtà che definire “amara” sarebbe un eufemismo. La vera domanda, allora, è: come possiamo, di fronte alla possibilità di sfruttare dei lavoratori e contribuire a devastare il pianeta, far sì che il nostro portafoglio morale sia tanto facilmente ricattabile? E nel resto del mondo cosa stanno facendo?
In breve: niente. Fatta eccezione per un unico caso, ossia la Francia, nella cui Camera Bassa sono stati approvati dei provvedimenti per disincantare gli acquisti di tessuti scadenti e dannosi. Una volta approvata la legge, i grandi distributori saranno obbligati a informare i consumatori dell’impatto ambientale che i loro prodotti arrecano al nostro pianeta ed è inoltre previsto un divieto di pubblicità dei vestiti scadenti. Il tentativo di blocco francese è senz’altro da emulare e applicare senza perdere troppo tempo, perché attualmente, con il disinteresse delle entità nazionali, i colossi come Shein stanno facendo enormi profitti sulla pelle dei lavoratori, sulla salute di chi indosserà quei capi ma anche in barba ai danni ambientali che stanno causando al pianeta.
Il ciclo di produzione è la cosa veramente interessante: Shein, ad esempio, produce e vende una maglietta progettata per esser utilizzata una volta soltanto (poi si sfalda, ricordiamoci che è di pessima qualità), cosicché il consumatore sarà portato a comprarne un’altra, poi un’altra, poi un’altra ancora… Inutile dire che maggiori sono i capi scadenti prodotti e venduti, maggiori saranno i danni irreversibili che quei prodotti causeranno al nostro pianeta.
Cosa possiamo fare?
– Riutilizzare vecchi vestiti non è da sfigati: fa bene a te, al tuo pianeta e soprattutto al tuo portafoglio;
– Comprare locale, così da fare due cose buone insieme:
– Sostenere le attività del tuo territorio e acquistare vestiti che durano nel tempo perché di qualità superiore.
– Sforzarsi di comprendere che continuando in questa direzione non solo alimentiamo il disumano sfruttamento dei lavoratori per soddisfare il nostro egoismo devoto al consumo, ma stiamo irreparabilmente devastando il nostro Pianeta.

Alfio Calabrese

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