Il Conte Ruggero, tre mogli e una ventina di figli (Prima Parte)

Il personaggio più importante della millenaria storia di Troina è il Conte Ruggero. Grazie a un, per i tempi, efficiente …apparato stampa e propaganda – soprattutto, ma non solo, nella persona di Goffredo Malaterra che scrisse “Imprese del Conte Ruggero e del fratello Roberto il Guiscardo” – si sa molto della vita e delle conquiste del Gran Conte. Per secoli gli storici ne hanno scandagliato vita pubblica e privata, battaglie, titoli, scontri e alleanze.

In questo saggio ci occuperemo della sua azione politica e militare ma principalmente indagheremo sulla sua famiglia, le sue mogli, i suoi figli. A cominciare dai numeri che sono impressionanti. Tre mogli: Giuditta d’Evreux, Eremburga di Mortain, Adelasia del Vasto. Da quattordici a sedici figli avuti dalle tre mogli: Flandina, Matilde, Adelasia, Emma partorite da Giuditta; Malgerio, Matilda, Muriella, Costanza, Felicia-Busilla, Giuditta (e forse anche una Violante e una Sibilla) messi al mondo da Eremburga; Simone, Matilde, Ruggero, Maximilla venuti alla luce da Adelasia. In più almeno altri tre figli naturali, riconosciuti anche se nati fuori dai matrimoni: Simone, Goffredo, un terzo di nome Guglielmo. Ai quali se ne potrebbe aggiungere un quarto ancora di nome Goffredo. Sommano undici femmine e sei maschi accertati. Ma potrebbero diventare tredici femmine e sette maschi. Insomma, si oscilla da diciassette a venti figli. Probabile peraltro che l’elenco dei figli e delle figlie illegittimi sia incompleto. “Impossibile stabilire con certezza quanti figli il conte ebbe dalle sue tre mogli, anche perché le fonti gli attribuiscono, oltre a quelli legittimi, numerosi figli naturali. Si ricordano tra i figli maschi Giordano (illegittimo, concepito in data precedente i tre matrimoni), Simone, Ruggero, tra le femmine due figlie entrambe di nome Matilde, Busilla, Massimilla, Flandina, Emma e numerose altre tra legittime e naturali. I documenti esistenti testimoniano che egli ebbe almeno tredici figli, ma più probabilmente furono diciassette, per quanto l’elenco potrebbe essere ulteriormente ampliato”. (“Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea”, www.genmarenostrum.com)

Certo, all’epoca non esistevano tv e meno che meno distraenti smartphone e social e a leggere performance e numeri del genere parrebbe che il Gran Conte normanno sia stato una specie di insaziabile mandrillo. In realtà toccheremo con mano come generare figli maschi finisca per diventare una ossessione spesso fonte di sofferenze nella vita di coppia della nobiltà; come l’esistenza di tanti venuti al mondo, maschi e femmine, sia stata incredibilmente breve a causa di tassi di mortalità elevatissimi e per la ridotta durata media della vita; come in particolare le figlie siano più che altro uno strumento di politica dinastica per allacciare o sancire rapporti e alleanze con altre casate, anche molto lontane. Viaggi di settimane per le future spose per raggiungere il marito da impalmare con al seguito servi e quanto più ricca dote possibile. Si diventerà regina consorte o principessa o contessa di un territorio. Nella quasi totalità dei casi non si rivedranno più genitori, fratelli, sorelle. Nella migliore delle ipotesi per qualche tempo ci si scriverà. Più che altro un matrimonio è una questione di dote, feudi e possedimenti, territori, ricchezze, preziosi che la nubenda porta al futuro marito e viceversa. Matrimoni combinati da famiglie, consiglieri, ambasciatori, intermediari e mezzani di alto livello. I matrimoni si rivelano formidabili strumenti per accampare poi diritti ereditari che sfociano spesso in conflitti armati. Impressiona il ruolo passivo della donna in generale e della donna che si sposa in particolare. Non ha nessuna voce in capitolo. Destinata al marito che i genitori decidono per lei. Punto. La sua funzione? Fattrice destinata alla riproduzione, un corpo umano che serve per mettere al mondo figli. Soprattutto maschi. Di amore in tutti questi intrecci dinastici non è il caso di parlare. Questo sentimento, nel nostro tempo tanto normale quanto essenziale, non faceva parte del matrimonio più o meno di tutte le classi sociali e in particolare dei “nobili e potenti”. Ma qualche rara eccezione la incontreremo. Spesso si comprava a scatola chiusa, talvolta con differenze di età spiazzanti per la nostra mentalità.

Colpisce, infine, che, malgrado tutta questa discendenza, solo l’omonimo figlio Ruggero, avuto dal Conte in tarda età – a 64 anni – sia riuscito poi, con non poche difficoltà e grazie all’energico attivismo della madre Adelasia, ad essere addirittura incoronato re di Sicilia. Un grande re: Ruggero II.

Ma procediamo con ordine. Le fonti e le date esistono. Tuttavia sono spesso contraddittorie e non è facile districarsi in un dedalo familiare così ampio e intricato.

 

Roger de Hauteville

Iniziamo naturalmente dal Gran Conte. Roger de Hauteville nasce intorno al 1031 a Hauteville la Guichard, in Normandia, regione della Francia settentrionale che affaccia sulla Manica, di fronte all’Inghilterra meridionale. È un discendente dei guerrieri vichinghi scandinavi che, dopo aver infestato per alcuni secoli con periodiche e sanguinose scorrerie Nord Europa e Isole britanniche, da qualche generazione si sono stanziati stabilmente in Normandia. Suo padre, Tancredi, è il signore del territorio che comprende Hauteville e qualche altro villaggio. La madre di Ruggero, seconda moglie di Tancredi, si chiama Frisenda o Fresenda, con probabilità figlia del primo Duca normanno e conte di Rouen Riccardo I di Normandia, soprannominato Riccardo senza paura. Ruggero è il dodicesimo e ultimo figlio maschio (e non si sa quante femmine) del prolifico Tancredi, il settimo e ultimo partorito dalla seconda moglie Frisenda.

“Il fratello minore Ruggero, che fin allora era rimasto in patria per la giovane età e per l’amore verso i genitori, finalmente giunse in Puglia. Il Guiscardo, felicissimo per il suo arrivo, lo ricevette con gli onori che meritava. Era un giovane bellissimo, alto, elegante nel portamento, buon parlatore, astuto, meticoloso nei suoi disegni, gioviale e affabile con tutti, forte e fiero soldato; e per queste doti, in breve, avrebbe ricevuto la meritata ricompensa. Ma intrigante com’era e vanitoso, come si suole all’età sua, si legava ad altri come lui, ai quali volentieri e generosamente spartiva quanto riusciva ad avere”. Così descrive Ruggero il suo biografo Goffredo Malaterra, o, in francese, Geoffreoi, monaco benedettino normanno che scrive la sua opera probabilmente poco dopo la fine della narrazione (1098). Per scriverla Malaterra avrà avuto accesso a una parte della documentazione della cancelleria di corte. Come precisa l’insigne storico e medievalista Salvatore Tramontana 1926-2015), docente dell’Università di Messina e di casa a Troina per le sue ricerche e per la partecipazione a più convegni storici nella cittadina, “non disdegnava le cerimonie ufficiali, il piacere della tavola, l’ebrezza del vino, le gioie della carne: le fonti, che registrano tre suoi matrimoni, gli attribuiscono numerosi bastardi”: (Salvatore Tramontana “Ruggero d’Altavilla. Il cavaliere, l’uomo, il politico” in “Ruggero I Gran Conte di Sicilia 1101-2001” Istituto italiano dei castelli – Sezione Sicilia. Atti del Congresso internazionale di studi per il IX Centenario (Troina 29 novembre – 2 dicembre 2001). A cura di Guglielmo de’ Giovanni – Centelles. Atti riuniti da Isidoro Giannetto e Massimiliano Ragusa. Laboratorio per l’arte, la cultura, l’ambiente. Troina-Roma 2007)

Ruggero giunse in Italia nel 1056 o forse anche prima attraverso la “Via Francigena” per unirsi al fratello Roberto il Guiscardo per il quale, alla morte del loro fratellastro Umfredo d’Altavilla, si erano aperti spiragli di predominio.

I due furono insieme nella conquista dei territori di Puglia e Calabria non ancora sottomessi. Ruggero fu inizialmente vassallo del fratello Roberto, duca di Puglia e di Calabria, come conte di Calabria e stabilì la propria corte a Mileto. Proprio a Mileto, in terra calabra, nel Natale del 1061, sposò la normanna Giuditta d’Evreux, figlia del conte Guglielmo d’Évreux e di Hadvise Géré.

In Calabria i fratelli Roberto e Ruggero si lanciarono alla conquista di Reggio, caduta dopo un lungo e difficoltoso assedio, al quale seguì la presa di Squillace, una città fortificata in cui avevano trovato rifugio le guarnigioni bizantine fuggite da Reggio. A questo punto la strada verso la Sicilia era ormai spianata. I due pianificarono la conquista della Sicilia, allora in mano ai musulmani.

 

Una lettura critica

Fin qui, per così dire, la storiografia “ufficiale”. Proviamo a fare una lettura più “critica” e meno celebrativa di queste vicende di quella di Goffredo Malaterra.

I primi normanni arrivati in Italia dalla Normandia erano mercenari, soldati di ventura assoldati per proteggere i pellegrini che si recavano al santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo, nel Gargano. Visto il loro valore, vennero reclutati dalle città costiere per essere difese dalle scorrerie musulmane e dai principi locali per reprimere le ricorrenti ribellioni delle loro popolazioni. Per questi servizi il normanno Rainulfo Drengot fu ricompensato con il dono della città di Aversa che nel 1030 divenne la prima contea normanna. Non a tutti i Normanni arrivati in Italia era però toccata la fortuna di Rainulfo. I più si erano dovuti accontentare di servizi e signori non sempre entusiasti della loro presenza, per cui erano spesso costretti, per sopravvivere, ad atti di banditismo. A un certo momento, i cavalieri normanni cessarono di combattere da mercenari e si misero in proprio. Nel giro di un ventennio riuscirono a impossessarsi di tutta l’Italia meridionale. La famiglia a cui toccò questa ventura fu quella di Tancredi. Come molti Normanni Tancredi aveva una famiglia numerosa, dodici figli maschi e non si sa quante femmine. Questi giovani furono educati, secondo quei tempi, alla caccia, alle armi, alla pietà, alla pietà cristiana, ma quanto a morale avevano una morale di ladri di strada. Non avevano lavoro, né beni, per cui non avevano speranza di vita futura se non partire in cerca di fortuna in terre lontane. I primi a partire da emigranti furono i tre figli maggiori di Tancredi: Guglielmo, Drogone e Umfredo. In Italia militarono come soldati di ventura a Capua e a Salerno e con l’esercito bizantino del generale Maniace combatterono in Sicilia i Musulmani.

Nel 1041 i tre fratelli Altavilla contribuirono in maniera decisiva alla vittoria dei ribelli pugliesi sui bizantini e ne presero il posto. Così conquistarono gran parte della Puglia e nel 1042 Guglielmo divenne duca di Puglia. Nel 1046 alla morte di Guglielmo gli succede Drogone e alla morte di questi Umfredo, sotto il quale scoppiarono rivolte popolari suscitate dal papa e dagli imperatori di Oriente e Occidente, tutti preoccupati per il potere che stavano acquisendo gli Altavilla.

Intanto nel 1047 era venuto in Italia un altro dei fratelli, Roberto detto il Guiscardo cioè l’astuto. Drogone, il fratello duca di Puglia in quell’anno in carica, non avendo terre da dargli, lo mandò con un pugno di uomini ai confini con la Calabria, dicendogli di afferrare tutto quanto scopriva con gli occhi; in pratica, arrangiati. E così Roberto cominciò la conquista della Calabria bizantina da brigante, rubando cavalli, saccheggiando ville, ricattando, bruciando i raccolti a chi rifiutava di pagare la taglia, ammazzando chi difendeva i propri beni. Assoldò gente e ne attirò molta con la promessa del bottino. Con questi metodi Roberto il Guiscardo stava diventano padrone della Calabria. Papa Leone IX arrivò con un esercito per fermare l’espansionismo dei normanni. Essi radunarono tutte le loro forze e attesero l’esercito pontificio a Civitate, in Molise. I soldati del papa alla vista dell’esercito normanno schierato terrorizzati scapparono senza neanche combattere, lasciando solo in mezzo al campo di battaglia il pontefice. Fu fatto prigioniero e liberato solo dopo dieci mesi. Umfredo, sfruttando la vittoria di Civitate, si impadronì del resto della Puglia. Roberto riprese la sua azione in Calabria. Morto Umfredo, Roberto divenne duca di Puglia.

  1. Papa Nicolò II, in un concilio a Melfi incontrò Roberto e lo investì della signoria di Puglia e Calabria. E anche della Sicilia quando questa sarebbe stata conquistata ai musulmani. In compenso il Guiscardo rese al papa il rituale omaggio feudale e gli giurò fedeltà. L’investitura papale delle terre meridionali non aveva alcuna base giuridica. Il Papa, infatti non aveva mai posseduto, né di fatto né di diritto, la Puglia, la Calabria e tantomeno la Sicilia, se non nella falsa cosiddetta “Donazione di Costantino”. Ma la falsità di questo atto fu scoperta quattro secoli dopo e nel frattempo la Donazione ebbe sia efficacia giuridica che politica e religiosa.

 

Ruggero d’Altavilla “emigra” in Italia e si “dà da fare”

Nel 1056 se non prima, dunque, venne in Italia l’ultimo dei fratelli Altavilla, Ruggero, allora venticinquenne o di qualche anno più giovane. Contrariamente a quanto scrive il monaco Malaterra il fratello maggiore Roberto il Guiscardo lo accolse con scarso entusiasmo. Con Ruggero c’era un’altra bocca da sfamare. Gli diede un posto dove abitare nel castello di Mileto e gli disse: “Ora datti da fare”. Ruggero si diede da fare fino a diventare vassallo del fratello con il titolo di conte di una parte della Puglia. (Questo lungo excursus storico è tratto da “La Sicilia normanna. La conquista. Capitolo Quinto”, LUTEmilazzo.it).

Che significa “datti da fare”? Lo chiarisce con la sua competenza il professore Tramontana nel saggio sopra citato: “Seppure assai renitenti, i cronisti lasciano intendere i brutali sistemi di occupazione e le continue razzie di beni, animali, persone. I Normanni, si legge in parecchie testimonianze, erano più raffinati dei Greci (bizantini, n.d.a.) nella loro violenza e più spietati dei Saraceni. A un prigioniero – riferisce un cronista – venivano amputate le membra secondo precise scansioni di tempo, e alle popolazioni che opponevano resistenza venivano distrutti i campi, bruciate le case, violentate le donne. Sia Malaterra che Amato di Montecassino accennano ai lucrosi riscatti in denaro con i quali Ruggero I assoldava uomini per rimpolpare i reparti del suo esercito. E non mancano le fonti documentarie che fanno riferimento e a esemplari operazioni di polizia con le quali il conte di Sicilia riportava ordine e tranquillità. (…) I Normanni del resto, dicono esplicitamente i cronisti, erano giunti nel Mezzogiorno italiano per “fare cavalleria” cioè per battersi, con audacia, piacere del rischio e gusto della violenza, e per assicurarsi beneficio e terra: “molti, – precisa appunto Guglielmo di Puglia – si erano lasciati convincere a partire: taluni perché avevano pochi o nessun bene, altri per accrescere la propria fortuna, tutti per desiderio di ricchezza”. Un desiderio assai accentuato nella famiglia Altavilla: “per loro natura – precisa Malaterra – i figli di Tancredi erano sempre avidi di potere, e non intendevano sopportare senza invidia che altri, anche se molto vicini a essi, avessero nelle loro mani possedimenti terrieri se non prestavano servizio direttamente come sudditi, o se non facevano tutto a vantaggio dei sovrani”.

Torniamo al nostro excursus storico. La vicenda umana e politica di Ruggero è stata da favola, nel senso che da povero e sconosciuto è diventato uno dei personaggi più ricchi e potenti d’Europa. Era di stirpe normanna, nato in Francia, nel ducato di Normandia. Quindi era di lingua francofona e di religione cristiana. Ma aveva ereditato e conservato il coraggio, l’audacia, il gusto dell’avventura dei suoi antenati vichinghi.

 

1061, via alla conquista della Sicilia. Richiederà trenta anni

Nel 1061 Roberto e Ruggero unirono le forze e iniziarono le operazioni militari per la conquista della Sicilia. L’impresa fu facilitata dal proliferare in Sicilia di fazioni, dallo stato di endemica anarchia e dalla presenza di quattro emiri saraceni che si erano divisi l’isola in quattro parti, in continua lotta tra loro. (Da “La Sicilia normanna. La conquista. Capitolo Quinto”, LUTEmilazzo.it)

Roberto e Ruggero trovarono il pretesto per l’invasione nella richiesta di aiuto da parte dell’emiro di Catania Ibn al-Thumna allora in lotta con suo cognato Ibn al-Ḥawwās emiro di Agrigento. Così, nel febbraio del 1061, Ruggero sbarcò a Messina e da lì i Normanni avanzarono quasi indisturbati sino a Enna e Agrigento, riuscendo ad occupare stabilmente la parte orientale dell’isola che maggiormente era rimasta legata alla cristianità. È in questa fase che Troina diventa la roccaforte e una sorta di capitale provvisoria dei territori siciliani conquistati.

Nel 1061 Ruggero è accolto con giubilo dalla popolazione cristiana di Troina. Vi trascorre il Natale. Al principio del 1062 fa ritorno in Calabria e sposa Giuditta. In quello stesso anno Ibn-Thumna è assassinato in Sicilia, i Normanni sono costretti a sgomberare da Troina e Petralia Soprana e scoppia in Calabria l’ennesima lite tra i fratelli Roberto e Ruggero. I motivi? Il Guiscardo non rispetta le promesse di titoli e terre fatte a Ruggero nel 1058. Alla fine il buon senso prevale e il Guiscardo – che, catturato dai bizantini calabresi a Gerace, deve la vita all’energico e generoso intervento di Ruggero – concede al fratello quanto promesso nel 1058. Ruggero nella seconda parte del 1062 torna in Sicilia per riprendere le sue scorrerie e per sottrarre castelli e villaggi ai musulmani. Ruggero è accompagnato dalla contessa (la prima moglie Giuditta, di cui scriveremo diffusamente tra poco), ben accolto dai nostri concittadini del tempo, in gran parte di etnia greco-bizantina. Ma mentre era impegnato nell’assedio di Nicosia, i troinesi gli si rivoltano contro e, sperando in un’agevole vittoria, provano a sopraffare i pochi normanni rimasti con la contessa. Il conte ritornò e trovò i ribelli ben fortificati nella città di cui erano padroni: anzi, Ruggero si trovò assediato da ogni parte, poiché ai greci di Troina in rivolta si erano uniti i musulmani. Come andò a finire la ribellione lo vedremo meglio più avanti.

Intanto nell’estate del 1063 Ruggero riportò una celebre vittoria sui musulmani nelle vicinanze di Cerami. Anche a proposito della battaglia di Cerami il racconto di Goffredo Malaterra sembra veramente esagerato. Egli afferma che Serlone, nipote del conte, con trentasei guerrieri mise in fuga ben trentamila musulmani, che poi Ruggero, sopraggiunto con altri cento dei suoi, mandò in rotta, uccidendone quindicimila. Forse i normanni furono debitori di tanta vittoria a quelle schiere di cristiani che desideravano la vittoria dei normanni sugli arabi. Per completare la narrazione fantastica di quanto avvenuto, si disse, a battaglia finita, che San Michele Arcangelo, risplendente di luce, avesse galoppato innanzi ai cristiani per guidarli alla vittoria (ancora oggi si tramanda la tradizione con festeggiamenti a San Michele a Cerami).

Con l’aiuto di Roberto, messi insieme cinquecento cavalieri, Ruggero si recò ad assediare Palermo; ma, passati invano tre mesi, fu costretto a levare il campo. Ciononostante il suo dominio andava crescendo: giunto a Misilmeri con buon numero di guerrieri, sconfisse l’esercito islamico, assai più numeroso del suo (1068). Proprio negli anni in cui i fratelli normanni Ruggero e Roberto conquistano la Sicilia, un altro normanno, Guglielmo il Conquistatore, grazie all’esito della decisiva battaglia di Hastings, nel 1066 si impossessa dell’Inghilterra.

Ma quando finalmente nell’anno 1070 con il contributo di Ruggero la città di Bari, ultimo baluardo dell’autorità bizantina in Italia, cadde in potere del duca Roberto, allora le forze unite dei due fratelli si volsero alla conquista delle principali città di Sicilia. Roberto nominò così nel 1071 Ruggero Gran Conte di Sicilia e tenne per sé Messina e il Val Demone.

Quell’anno i due principi normanni assediarono Palermo. Il Gran Conte pose il suo campo a occidente, il duca a oriente, dove sorgeva la città nuova. Il loro esercito teneva chiuso l’ingresso al porto, ma i musulmani di Sicilia resistettero cinque mesi. Poi, con uno stratagemma, il Guiscardo riuscì ad aprire una delle porte al fratello, e i saraceni, dopo aver tutto il giorno valorosamente combattuto, la sera furono costretti a ritirarsi nella città vecchia e il giorno seguente si arresero. I due fratelli occuparono Palermo il 10 gennaio 1072.

Ruggero quindi si dedicò alla definitiva conquista dell’isola: espugnò Taormina con molti castelli in Val Demone, Castronovo, Jato, Cinisi e Trapani. Mancavano solo Siracusa, Agrigento, Castrogiovanni (Enna), Butera e Noto.

Alla morte del fratello duca Roberto (1085), Ruggero passò in Puglia a ricomporre le contese nate tra i figli del Guiscardo, Ruggero e Boemondo; ebbe in ricompensa quella metà di Calabria che Roberto aveva mantenuto in suo possesso.

Tornato in Sicilia, dovette domare la potenza di Benavert, signore musulmano di Siracusa e di Noto. Sul finire del maggio 1086 Ruggero e Giordano, suo figlio, si avvicinarono con l’esercito a Siracusa. L’assedio di Siracusa durò sino al mese di ottobre. Poi i saraceni, costretti dalla fame, si arresero.

Alla caduta di Siracusa venne dietro nel 1087 quella di Agrigento, di cui era signore Kamut che aveva sotto la sua giurisdizione anche Enna. Butera fu assediata da Ruggero nel 1088, quando gli venne annunziato l’arrivo a Troina del pontefice Urbano II. Affidato ai suoi l’assedio, il conte corse a Troina. Ruggero usò verso il Sommo pontefice i segni del più profondo rispetto; lo ricolmò di preziosi doni; poi tornò all’assedio di Butera, che gli si arrese nel 1090. Recatosi a Mileto per celebrarvi le nozze con Adelaide di Monferrato, la sua terza moglie, ricevette alcuni ambasciatori saraceni di Noto che gli chiedevano la pace. Così, dopo trent’anni, Ruggero poté dirsi padrone di tutta l’isola (1091). (Per gli aspetti più propriamente militari, strategici, tattici delle conquiste normanne rimandiamo ai due importanti saggi di Giovanni Amatuccio indicati alla fine di questo lavoro nella “Documentazione, bibliografia, sitografia”).

 

Rilettura critica degli avvenimenti

Riprendiamo la lettura critica dei fatti. Si dipana da una domanda che tutti ci poniamo: perché la conquista della Sicilia richiede ben trenta anni? “Trent’anni di guerra per conquistare la Sicilia è un periodo non molto lungo rispetto ai 138 anni che impiegarono i musulmani, ma non è neanche un periodo breve. Ma bisogna considerare alcune circostanze che frenarono lo slancio conquistatore normanno. Durante la campagna di Sicilia Roberto il Guiscardo dovette affrontare diverse rivolte in Puglia, per cui fu costretto a interrompere spesso le operazioni militari. Lo stesso Ruggero più volte dovette lasciare l’isola per accorrere in Puglia in soccorso del fratello Roberto il Guiscardo. Bisogna poi aggiungere che la Sicilia è una piccola isola e tutta l’esperienza militare precedente aveva dimostrato che il fattore decisivo per invaderla e conquistarla era la supremazia navale sul mare. I primi ad apprendere questa lezione erano stati i Romani durante la prima guerra punica contro Cartagine. Gli Altavilla, invece, dimenticando la storia dei loro antenati vichinghi che del mare erano stati i dominatori, iniziarono l’invasione sbarcando da Reggio a Messina con poche imbarcazioni, appena sufficienti al trasporto degli uomini, 160 cavalieri e qualche centinaio di fanti, dei cavalli, delle armi. Questo fu uno dei motivi per cui la conquista fu una estenuante campagna terrestre durata trent’anni e realizzata un pezzo per volta”. (“La Sicilia normanna. La conquista. Capitolo Quinto”, LUTEmilazzo.it)

Ruggero volle poi anche dedicarsi alla conquista dell’isola di Malta, da dove i saraceni avrebbero potuto con le loro incursioni preoccupare i normanni. Partì nel luglio 1091. Giunto, immediatamente ingaggiò battaglia e cinse d’assedio Medina, il principale insediamento dell’arcipelago. I saraceni e il loro capo chiesero la pace e l’ottennero a condizione di mettere in libertà tutti gli schiavi cristiani; di pagare una grossa somma di denaro e in avvenire un tributo annuo; di far giuramento che avrebbero aiutato il conte quando e come lo avesse richiesto. Gli storici ancora discutono: si è trattato di una conquista, di una invasione o solo di una massiccia scorreria? Ad ogni modo l’attacco aprì la strada alla (ri)cristianizzazione di Malta.

Dopo la spedizione di Malta, il conte fu invitato dal duca di Puglia, suo nipote, a prestargli soccorso per sottomettere gli abitanti di Cosenza, che si erano ribellati. Ruggero domò l’insurrezione e il duca diede ai cosentini il perdono della ribellione, allo zio per gratitudine la metà della città di Palermo che il Guiscardo aveva tenuto per sé. Ruggero I ottenne quindi dal papa la “Legazia Apostolica” nel 1098. Morì a Mileto all’età di settanta anni per una stenocardia – il 22 giugno 1101 secondo alcune fonti che condividiamo, il 22 luglio secondo altre – assistito dal monaco Bruno di Colonia, monaco tedesco fondatore dell’Ordine certosino.

“Ruggero oltre che abile condottiero fu anche un fine diplomatico; appoggiò il Papato e così riuscì a farsi nominare Gran Conte di Sicilia. Inoltre, riuscì a gettare le basi per un’organizzazione dello stato basata prima ancora che sui signori feudatari su una classe di burocrati formata da funzionari pubblici non legati all’aristocrazia e dove comunque la sua figura era quella che deteneva il potere assoluto.

Come sovrano cattolico fece erigere cattedrali a Troina, Mazara del Vallo, Paternò, Modica, Catania, Messina fra tutte.

Durante il suo governo ebbe inizio l’attuazione di una politica di ripopolamento in ampie zone dell’isola, complice il matrimonio con la terza moglie Adelasia del Vasto, con un copioso afflusso di genti provenienti dal Piemonte, allora chiamato Langobardia, soprattutto dal Monferrato, e in misura minore con genti di origine franco-provenzale, bretone, normanna e inglesi. Le popolazioni della parte settentrionale e centrale della Sicilia, dette Lombardi, che oggi parlano il cosiddetto idioma gallo-italico della Sicilia, discendono da questi flussi migratori dall’Italia settentrionale e dalla Francia iniziati in epoca normanna.

All’epoca della conquista normanna, la maggior parte degli abitanti della Sicilia erano di religione musulmana o cristiano-bizantina e inizialmente la politica degli Altavilla in Sicilia fu prevalentemente orientata a sostenere la tradizione greco-basiliana. Ruggero I infatti per garantire l’unità del suo stato affidò alla chiesa bizantina il compito di rafforzare e sostenere nelle periferie il potere della dinastia: il rito bizantino infatti prevedeva la possibilità della subordinazione degli istituti ecclesiastici al sovrano, purché cristiano.

Nel 1098 papa Urbano II, per garantire la sopravvivenza di quelle comunità siciliane dove funzionari e clero, fedeli al patriarcato di Roma, così come la popolazione ivi insediata, seguivano il rito latino, in linea con la politica bizantina di Ruggero, concesse l’amministrazione delle diocesi filo-romane al conte normanno, nominandolo in una bolla legato pontificio e conferendogli l’ereditarietà di tale titolo. Tale istituzione, detta Legazia di Sicilia o Apostolica Legazia – per la quale furono gettate le basi nel “vertice” di Troina tra il Pontefice e il Gran Conte di dieci anni prima – tendeva a tutelare il patrimonium ecclesiae siciliano e l’unità delle chiese cattoliche fedeli alla diocesi di Roma e non subordinate al Patriarca di Costantinopoli. Per la prima volta la chiesa di Roma concedeva ad un sovrano laico molti privilegi amministrativi, fra i quali la possibilità di gestire le cariche episcopali, il patrimonio finanziario delle diocesi e l’istituzione di metropolie. Da allora le diocesi della chiesa romana in Sicilia non si ponevano come soggetto giuridico indipendente, come nel resto d’Italia, ma, allineate con la politica bizantina, erano subordinate al potere laico degli Altavilla accentrato in Palermo”. (“La Sicilia normanna. La conquista. Capitolo Quinto”, LUTEmilazzo.it)

Fin qui per sommi capi la “De Rebus Gestis” di Ruggero per citare l’originario titolo in latino della biografia di Malaterra.

 

La famiglia, anzi le famiglie, del Gran Conte Ruggero. La prima moglie Giuditta

Entriamo adesso nel vivo del capitolo “Famiglia del Conte Ruggero”. Come anticipato, agli inizi del 1062 il trentenne Ruggero sposa Giuditta. La giovane normanna nasce sicuramente dopo il 1040 e dunque parrebbe esserci una differenza di età tra i due sposi di dieci anni o poco più.

Giuditta, secondo il monaco e cronista inglese Orderico Vitale, era la figlia primogenita di Guglielmo d’Évreux e della moglie Adevisa. Sempre secondo Orderico Vitale, Giuditta aveva una sorella uterina, di nome Emma, ed entrambe vivevano nel convento dell’Abbazia di Saint-Wandrille de Fontenelle, dove Roberto di Grantsmesil, fratello delle fanciulle (fratellastro di Giuditta) era priore del monastero. Essendo venute a conoscenza attraverso il loro fratello/fratellastro Roberto che alcuni Normanni si erano affermati in Puglia, le due decisero di non prendere più i voti e dalla Normandia si recarono in Italia. Ambedue trovarono marito: Giuditta sposò Ruggero, Emma sposò un commilitone di Ruggero.

La leggenda vuole che Ruggero si fosse innamorato della fanciulla già anni prima vedendola nel monastero benedettino dove era stata mandata assieme a Emma. Torneremo sull’argomento.

Ruggero, nonostante le preghiere della moglie, subito dopo le nozze partì per una ennesima campagna militare.

La contessa morì nel 1076. Trentaseienne all’incirca. Altre fonti invece ne datano il decesso nel 1080. Altre fonti ancora sostengono che morì addirittura a 26 o 27 anni. Comunque sempre troppo giovane per morire.

Attraverso le cronache di Goffredo Malaterra conosciamo ora in modo un po’ più approfondito Giuditta. La quale visse per un certo tempo a Troina e di certo – ce ne renderemo conto tra poco – non avrà serbato un ricordo felice della nostra arroccata cittadina.

Scrive il monaco normanno: «(…) Quindi [Ruggero] giunse a Troina, [siamo alla fine del 1061] accolto con piacere dagli abitanti cristiani: dispose ai suoi ordini la città e celebrò il Natale.

Qui lo raggiunse un messo proveniente dalla Calabria, per annunciargli che l’abate di Sant’Eufemia Roberto sollecitava il suo ritorno per celebrare le nozze con la propria sorella Giuditta, nipote dei conti normanni, condotta lì dalla Normandia. A questa notizia il conte si rallegrò assai, perché la desiderava da molto tempo, tanto era bella e nobile, e così ritornò in Calabria quanto più presto gli fu possibile per andare a trovare la fanciulla a lungo agognata. Giunse nella Valle delle Saline, a San Martino, donde, con accompagnamento di musici, condusse a Mileto la legittima sposa promessa e lì celebrò nozze solenni.

Celebrato il matrimonio, dimorò un certo tempo con la moglie, ma non poteva dimenticare ciò che rivolgeva nell’animo. Infatti allestì un esercito, prese con sé, tra i soldati del duca, l’armigero Ruggero e, lasciata la giovane sposa in Calabria, di nuovo si avviò in Sicilia, né lo trattennero le lacrimose preghiere della moglie”.

A Troina fortifica le difese. E dopo varie scorrerie in territorio siciliano “torna in Calabria dalla moglie che soffriva per la sua mancanza e domandava della sua salute: il suo arrivo la rallegrò moltissimo.

Ruggero, non avendo ricevuto dal fratello nessun’altra città oltre Mileto, gli chiese di avere concessa la metà di tutta la Calabria, come gli aveva promesso quando lo aveva invitato a venire da Scalea per una riconciliazione; tanto più perché voleva dotare decorosamente la giovane moglie, come spettava a una fanciulla di nobili natali. Ma il duca, generoso quando si trattava di denaro, era alquanto avaro nella distribuzione delle terre: e tirava per le lunghe con discorsi ambigui”.

Secondo l’uso normanno, alla sposa veniva costituita una dotazione di terre (Morgengab). Seguono scontri tra i due fratelli per risolvere la questione e nel 1062 Ruggero “riprese a invadere la Sicilia con trecento uomini, conducendo con sé la giovane sposa, sebbene timorosa e recalcitrante per quanto intuiva. Giunse dunque a Troina i cui abitanti greci già un’altra volta lo avevano accolto, e di nuovo lo accoglievano, sebbene non con lo stesso calore di prima; fortificò la città secondo i suoi interessi, anche se, data la natura montuosa del sito su cui si trovava, sarebbe stata abbastanza difendibile; affidò la moglie a pochi dei suoi e se ne andò ad aggredire i dintorni”.

 

Ribellione a Troina

“Allora i Greci, gente sempre sleale, offesi perché costretti a ospitare nelle loro case i soldati del conte, temendo per le mogli e per le figlie, un giorno in cui Ruggero si trovava a combattere a Nicosia, si accorsero che a guardia della contessa erano rimasti pochi uomini; immaginando di riuscire a prevalere facilmente su di essi, presero ad attaccarli per cacciarli o ucciderli e liberarsi così dal loro gioco. Ma i nostri, sebbene pochi, prontissimi nell’animo e nelle armi, informati dell’imboscata, rapidamente corsero ad armarsi: difesero la padrona e sé stessi con accanimento, con accanimento resistettero, finchè la notte non interruppe la lotta. Il conte, informato da alcuni messi dell’accaduto, volò rapidissimo e oppugnò, ma senza buona sorte, i Greci, che avevano costruito tra sé e i Normanni delle barricate a difesa, tagliando in due la città. Infine i Saraceni delle vicine città, a cinque miglia dei nostri, avendo sentito di contrasti tra i Greci e i Normanni, sempre disponibili e ben contenti di portare aiuto, si recarono dai Troinesi che, col loro aiuto, riuscirono a difendersi benissimo. I nostri, ora attaccando, ora difendendosi, erano impediti dalle frequenti scaramucce ad andare nei dintorni in cerca di cibo, come di solito facevano; perciò si indebolirono per la fame, per l’ansia di continue battaglie e per le veglie, cose che, tutte insieme, diventano letali. A tal punto ciascuno badava a sé, che lo stesso conte aveva solo un tale che procurava cibo per lui, per la moglie e per gli armigeri. Erano impediti di uscire fuori a far preda dalle necessità di doversi difendere continuamente all’interno della città; d’altra parte non rischiavano di uscire con pochi uomini per far bottino, perché sarebbero stati catturati: e l’incombente pericolo dissuadeva ognuno dal muoversi. Ne derivò una tale penuria che non potevano procurarsi alcunchè, né con le buone né con le cattive, né averla per pietà e neppure in prestito: tutti, dal conte fino all’ultimo dei servi, erano miserevoli nella stessa misura. C’era una tale scarsità di vesti, che il conte e la contessa avevano un solo mantello che indossavano alternatamente secondo le necessità. Invece Greci e Saraceni, verso i quali ogni città si mostrava disponibile a soddisfare ogni loro desiderio, abbondavano di tutto. E infatti non avevano bisogno di andare qua e là in cerca di cibo, giacchè tutta la Sicilia faceva a gara per procurare loro spontaneamente ogni cosa di cui avevano bisogno. I nostri, abbrutiti dall’indigenza, spossati dalla fame, dalle fatiche e dalle veglie, si nascondevano l’un l’altro la propria debilitazione per non scoraggiarsi a vicenda, anzi cercavo di ostentare una certa serenità nel volto e nel parlare. Ma se la giovane contessa riusciva a placare la sete con l’acqua, riusciva a placare la fame – non avendo altro – solo piangendo o dormendo”.

“La popolazione cristiana di Troina, – commenta Guglielmo de’ Giovanni-Centelles, accademico pontificio – come quella di Palermo, è italo-greca e il suo atteggiamento verso i Normanni malcerto. I biondi cavalieri sospettano della lunga coesistenza con i musulmani, gl’Italo-Greci oscillano tra il “gaudio” e la ribellione aperta. Quando la libertà nel trattare le donne tipica dei Franci, tanto diversa dal rispetto cauteloso professato dall’Islam, allarma l’elemento italo-greco (“de uxoribus et fileas timentes”), scoppia la rivolta e solo l’”innata ferocitas” salva i Normanni dal saldarsi dei “Graeci vero semper genus perfidissimum” ai “Sarraceni de vicinis castris”. Il presidio normanno sfiora il collasso”. (Guglielmo de’ Giovanni-Centelles  ”Croce e spada nella Sicilia del Gran Conte: le nomine vescovili” in “Ruggero I Gran Conte di Sicilia 1101-2001”. Istituto italiano dei castelli–Sezione Sicilia. Atti del Congresso internazionale di studi per il IX Centenario (Troina 29 novembre – 2 dicembre 2001). A cura di Guglielmo de’ Giovanni-Centelles. Atti riuniti da Isidoro Giannetto e Massimiliano Ragusa. Laboratorio per l’arte, la cultura, l’ambiente. Troina-Roma 2007)

Torniamo alla cronaca di Malaterra: “Malgrado i continui assalti nemici non consentissero rifornimenti, tuttavia risorse in loro l’innata fierezza, anche se le forze non soccorrevano: per non essere annientati, dovevano irrompere armati contro il nemico.

Un giorno, attaccata battaglia, il conte, per soccorrere i suoi, si gettò a cavallo in mezzo ai nemici, i quali, riconosciutolo, gli si avventarono contro con maggiore impeto e ferirono il cavallo con giavellotti; il conte cadde a terra assieme al cavallo: lo afferrarono, e per punirlo a dovere cercarono di trascinarlo in un posto per loro più sicuro, mentre si dibatteva come un toro portato al sacrificio. Ma il conte, pur in tanto rischio, non fu immemore delle antiche forze e adoperando la spada a mo’ di falce che taglia l’erba verde e roteandola energicamente, ne uccise parecchi, e solo con la sua destra e con l’aiuto di Dio, riuscì a liberarsi: anzi fece tale strage di nemici, che i loro cadaveri giacevano tutt’intorno a lui, come rami spezzati dal vento in un fitto bosco. I superstiti si ritirarono dietro le barricate, mentre il conte recuperava la sella del cavallo abbattuto e se ne tornava tranquillamente verso i suoi, senza mostrare di affrettarsi per paura.

Per quattro mesi i nostri patirono fatiche e pericoli, ma l’inverno rigidissimo di quell’anno fu occasione per loro di liberarsi e per i nemici di perdizione. Infatti per la vicinanza dell’Etna, in un certo periodo dell’anno c’è un caldo implacabile per le vampe del vulcano sulfureo, in altre stagioni ci sono burrasche, neve e grandine. I nemici erano soliti riscaldarsi con bagni caldi, ma poiché spirava un vento gelido, cercavano di suscitare il calore naturalmente anche bevendo vino: e per la sonnolenza che di solito segue, cominciarono a trascurare i turni di guardia della città. I nostri, accorgendosi di ciò, finsero di essere più negligenti sebbene al contrario vigilassero con la massima attenzione; fecero cessare ogni rumore per tranquillizzare di più il nemico e finsero di non vigilare quasi più. Il conte, che non si lesinava alcuna fatica, mentre faceva il turno di guardia notturna con i suoi, che ottemperavano diligentemente al loro compito pur sotto una bruma pungente, si accorsero che i nemici si erano addormentati e che nessuno di loro, e sì che erano tanti, faceva la guardia: allora si introdusse in silenzio nel loro accampamento; li assalì di sorpresa, ne uccise molti e conquistò il fortilizio, fece molti prigionieri, mentre altri che stavano fuori si salvarono fuggendo. Porino, che aveva guidato il tradimento, fu impiccato assieme ai complici principali, perché fosse di monito agli altri. I nostri trionfarono con le spoglie conquistate, e si colmarono con tale abbondanza di vino, olio e altro – di cui fino a quel momento mancavano (…).

Sistemate le cose e fortificata la città, per restituire ai suoi i cavalli che avevano perduto, Ruggero andò a cercarne in Calabria e in Puglia, lasciando a Troina la moglie e i soldati. Questa, sebbene giovane, cominciò ad occuparsi con tale zelo delle difese della città, che ogni giorno girava intorno alle mura per vedere dove si dovesse apportare qualche miglioramento e per esortare a una maggiore vigilanza. Rivolgeva affabili parole ai soldati affinchè custodissero con diligenza le opere di difesa, promettendo tante ricompense al ritorno del suo signore. Ma ricordando anche il passato pericolo, ammoniva che non capitasse di nuovo qualcosa di simile per un comportamento negligente”. Fin qui le pagine, celebrative e di parte, che Malaterra dedica alla ribellione di Troina che costringe i Normanni sulla difensiva.

 

Un raro matrimonio d’amore   

Il rapporto coniugale tra Giuditta e Ruggero non sopravvive di solo calcolo politico-dinastico e le pagine del Malaterra che abbiamo riportato sembrano confermarlo. Più ancora, però, lo conferma un episodio. Non sappiamo quanto attendibile comunque lo riportiamo. “Ruggero visse i primi venticinque anni dedicandosi alla caccia, ai cavalli, all’uso della lancia e della spada, non disdegnando le ragazze. Di una di queste si innamorò ricambiato, Giuditta di Evreux, figlia dei conti della contea di Evreux, a tal punto che, con la sfrontatezza che lo contraddistingueva, la chiese in moglie ai genitori, lui spiantato e nullafacente. Il rifiuto fu netto e anzi, secondo i costumi dell’epoca, i genitori misero in convento la figlia per evitare che i due facessero un passo inconsulto. Ruggero non si scoraggiò e avrà pensato: “Un giorno, miei cari conti, verrete a pregarmi in ginocchio”. E si diede da fare per realizzare questa sua aspirazione. (…) Col titolo di conte di una parte della Calabria ora Ruggero poteva sposare la sua Giuditta. (…) I primi anni furono duri per la sposa: Ruggero andava e veniva dalla Sicilia, dove era impegnato nella conquista dell’isola. Qualche volta Giuditta lo seguiva nelle sue imprese militari, condividendo con lui i pericoli e i disagi della guerra”. (“La Sicilia normanna. La conquista. Capitolo Quinto”, LUTEmilazzo.it)

Come appunto a Troina nell’inverno del 1062.

 

Le quattro figlie di Ruggero e Giuditta

Giuditta partorisce quattro femmine. La prima, Flandina d’Altavilla, nasce orientativamente nel 1062 (qualche fonte sostiene circa nel 1070 ma la data è inesatta, troppo spostata in avanti). Riceve in dono dal padre le contee di Paternò e Butera. Si sposò due volte. La prima, anche se Goffredo Malaterra non ne fa il nome, con Ugo di Jersey, primo conte di Paternò e signore di Catania, morto nel 1075. La seconda, nel 1089, con Enrico del Vasto, fratello di Adelaide, terza moglie del padre. A questo punto le fonti divergono e le date devono essere prese con le molle, come spesso siamo costretti a fare. Se rimane vedova nel 1075 del primo marito, ha appena 13 anni e non può avere avuto da Ugo di Jersey una figlia femmina di nome Maria e tre figli maschi: Manfredo, Giordano e Simone. Si risposa con Enrico del Vasto. Comunque un matrimonio di breve durata quello con il fratello della matrigna Adelaide perché Flandina muore giovane, poco più che trentenne, nel 1094. Appena il tempo di partorire un figlio da Enrico a cui viene imposto il nome di Simone.

La seconda figlia di Ruggero e Giuditta, Matilde, nasce appena qualche anno dopo Flandina e quindi nel 1063 o 1064.

Secondo lo storico italiano (tedesco di nascita) Hubert Houben, la giovanissima Matilde, in quel periodo, sarebbe stata data in moglie (seconda moglie) a Roberto, conte d’Eu e signore di Hastings (Inghilterra). Ma prima del 1080 Matilde venne ripudiata dal marito. Se di questo presunto primo matrimonio abbiamo così scarne notizie – è possibile che ci sia stata solo una promessa di matrimonio da parte dei genitori e che poi tutto sia andato in fumo prima di celebrarlo – di ben più ampie informazioni disponiamo a proposito del secondo matrimonio di Matilde, quello con il potente conte di Provenza.

Nel 1080, il conte di Saint-Gilles e marchese di Gotia, Raimondo giunse in Sicilia, per stringere un’alleanza con il Gran Conte Ruggero. Dato che Raimondo aveva da poco ripudiato la prima moglie, di cui non ci è pervenuto il nome, che era una sua cugina, per rafforzare l’alleanza fu decisa anche una alleanza matrimoniale: Matilde, la secondogenita di Ruggero avrebbe sposato Raimondo, secondogenito del conte di Tolosa, conte di Nîmes e conte d’Albi, Ponzio e di Almodis de La Marche. Ecco come Malaterra – con enfasi quasi fastidiosa – descrive questi avvenimenti: “Nel 1080, Raimondo, famosissimo conte di Provenza, raggiunto dalla fama di Ruggero, conte dei Siciliani, gli inviò messi degni di così gran principi, per chiedere in moglie la bella figlia Matilde, che il conte aveva avuto dalla prima moglie. Ruggero accettò ed entrambe le parti concordarono il matrimonio religioso e la data delle nozze; i messi, come da consuetudine, munificati di doni, affrettarono il ritorno per comunicare al loro signore l’avvenuta concessione. Ne fu felice Raimondo – infatti ardeva d’amore per quella fanciulla di cui aveva sentito decantare la bellezza – e appresa la data delle nozze, si mise in viaggio alla volta della Sicilia e si affrettò per anticipare l’arrivo.

Il conte ricevette l’ospite con i dovuti onori. Si rinnovarono i patti, descrivendo in un atto la dote della fanciulla, alla presenza di testimoni; il matrimonio cattolico fu celebrato alla presenza dei vescovi di entrambe le parti che officiarono assieme al clero. Quel sentimento che a poco a poco era nato tra il giovane e la fanciulla, nella prima notte, come suole, si esaltò all’infinito. Celebrate dunque le nozze, e non senza sfarzi costosi, il suocero trattenne per un po’ di tempo il genero presso di sé e se lo rese devoto con doni, come la circostanza richiedeva; ed elargì a ciascuno del seguito omaggi diversi, secondo il rango. Quindi, preparate le navi, lasciò andar via sul placido mare il genero con la figlia”.

Come diverse volte riscontriamo nelle pagine del “De Rebus Gestis”, nelle occasioni importanti o che vanno enfatizzate o ingentilite Geoffroi Malaterra passa dalla prosa ai versi. Succede anche in occasione del matrimonio tra Raimondo e Matilde: “Non si cura la figlia del padre, né s’addolora di lasciare la madre;/Le piace essere la moglie di un conte straniero./È lontana da chi l’ha nutrita, ha un altro signore,/la madre se ne addolora, anche se ormai è adulta la figlia:/La figlia non è presa da un amoroso compatriota/ma da un uomo più lontano/di chi è nella stessa patria./Non la biasimo per questo,/anche se ora scrivo queste cose:/né voglio impedire che sia unita al marito;/Lo ami e gli sia fedele, con onesto decoro:/nessun giudice molesterà chi è unito dalla legge./Cresca la prole, affinchè continui il vigore!/La fanciulla più ragguardevole è data in sposa/al più ragguardevole uomo./Per tale sorte siano due in una sola carne./Lo vuole la legge di Dio, non una legge straniera./La scrittura ha stabilito i doveri futuri:/dimentichi il padre e anche la madre, ognuno sia unito al coniuge da un superiore amore./Con questi costumi coniugali si difende la discendenza”.

Dal resoconto di Malaterra, leggendo attentamente tra le righe, non sembra affatto che si tratti delle seconde nozze di Matilde quanto piuttosto di una “prima volta” della giovane. Ma non abbiamo ulteriori elementi per avallare o meno le tesi dello storico Houben. Così, a prima impronta, siamo portati a ritenere che si tratti del primo matrimonio di Matilde.

Il matrimonio però, forse perché non allietato dalla nascita di alcun figlio, non durò a lungo. Intorno al 1088 si concluse con un divorzio. Matilde rientrò in Sicilia e morì verso il 1094.

Della terzogenita Adelisa disponiamo di pochissime notizie. Si sa che sposò nel 1083 Enrico, conte di Monte Sant’Angelo, città della Puglia. Anche lei morì molto giovane, prima del 1096.

Più informazioni invece abbiamo sulla quartogenita Emma. Nacque probabilmente nel 1064 o 1065. Si trovò suo malgrado al centro di una sconcertante vicenda pseudo-matrimoniale che ha come protagonista il re di Francia. Vediamo innanzitutto di inquadrare la vicenda e poi leggiamo la ricostruzione dei fatti nelle pagine di Goffredo Malaterra. Ruggero, quando Emma era ancora bambina, si accordò per farla sposare con il re di Francia, Filippo I, promettendo una ricca dote. Ma quando Emma si recò in Francia per incontrare il fidanzato si scoprì che Filippo si era già sposato con Berta d’Olanda. La dote fu rispedita in Sicilia, mentre il cognato Raimondo di Provenza (il marito della sorella Matilde) si adoperò per far maritare Emma con il conte di Clermont e futuro Conte d’Alvernia, Guglielmo. Il matrimonio fu celebrato nel 1087 o anche prima. Invece secondo lo storico francese, Étienne Baluze, il conte di Clarmont che aveva sposato Emma era il conte di Chiaramonte e non il conte d’Alvernia. E, secondo le Europäische Stammtafeln, la moglie di Guglielmo era Emma, figlia di Guglielmo d’Evreux, ossia la zia materna di Emma di Altavilla, anche se la cosa è cronologicamente quasi impossibile.

Interpretazioni contrastanti ma tutto lascia presumere che la sfortunata Emma sia andata in Francia per diventare regina e abbia rimediato comunque un matrimonio di ripiego con un conte. Ma ecco come Malaterra – al solito di parte ma stavolta non senza  ragione – riscostruisce lo scandalo: “In quel tempo Filippo, re dei Franchi, aveva una legittima moglie di nome Berta, di illustre casato, dalla quale aveva ottenuto un figlio di nome Ludovico, cui fin dalla nascita aveva destinato il regno dopo la sua morte: a un certo punto, contro il diritto di un legittimo matrimonio, prese ad odiare la moglie e ad allontanarla da sé in onta ai canoni; imbastì il libello del ripudio, nel quale falsamente di null’altro la accusava, se non che ci fosse tra loro una consanguineità, ma non riuscì nell’intento. Il re Filippo mandò dei messi in Sicilia per chiedere in sposa la figlia Emma, fanciulla davvero bella, che il conte aveva avuto dalla prima moglie Giuditta. Il conte, ignaro della frode che Filippo tramava contro la legittima sposa, promise la figlia con sponsali solenni; alla data fissata si prepararono le navi cariche di molti doni e il conte inviò la figlia a Sant’Egidio, dove il re l’avrebbe incontrata. L’aveva affidata a Raimondo, conte di Provenza, per scortarla fino al re con i dovuti riguardi; Raimondo stesso da qualche tempo aveva promesso il matrimonio a un’altra figlia del conte.

Ma il re Filippo, spinto da malvage suggestioni, mirava ad accaparrarsi la dote e raggirare il conte non sposandone la figlia. Quando il conte Raimondo scoprì la frode, cominciò a congetturane un’altra egli stesso, cioè di consegnare la fanciulla, che era all’oscuro dell’inganno, a un altro uomo, e trattenere per sé il tesoro. Ma gli onesti uomini che il conte aveva mandato al seguito della figlia, scoprirono le trame e, trasportato altrove il tesoro su richiesta della fanciulla, salparono e affidando le vele ai placidi venti che soffiavano, ritornarono in Sicilia dal conte. Il conte Raimondo, deluso nella frode che macchinava, sposò con legittime nozze la figlia del conte di Clermont. Emma potè prendere marito solennemente e solo nel volere di Dio, riscattando il padre dall’ingiuria che verso di lui il re Filippo aveva macchinato, e salvando sé stessa da nozze empie, ancorchè regali”.

Oltre a Filippo di Francia non ci fa una bella figura neanche Raimondo di Provenza. È possibile che queste trame abbiano inciso sul divorzio tra Raimondo e Matilde del 1088. Tra le possibili ragioni forse anche i rapporti tra il suo casato e quello della moglie degli Altavilla che si saranno inevitabilmente incrinati a seguito delle frodi e dei raggiri in terra francese, stando alla narrazione di Malaterra.

Anche il matrimonio di Emma con il conte Guglielmo VI non durò molto. Dopo aver dato due figli a Guglielmo (uno di nome Roberto e uno di nome Guglielmo) Emma fu ripudiata e, tornata in Sicilia, si sposò in seconde nozze con Rodolfo Maccabeo, conte di Montescaglioso, in Basilicata. In una donazione di Rodolfo Maccabeo del maggio 1099 Emma risulta essere già moglie del conte di Montescaglioso. L’ultima donazione in cui Emma è citata risale all’agosto 1119.

Dopo la morte del marito Rodolfo Emma aiutò il figlio, Ruggero Maccabeo, nel governo della contea fino a quando il suo fratellastro, il conte Ruggero II di Sicilia, invase il territorio, probabilmente dopo la morte del figlio Ruggero Maccabeo, ultimo conte di Montescaglioso. Oltre al figlio Ruggero Maccabeo Emma partorisce da Rodolfo sicuramente una figlia, Adelasia di Adernò, e forse una seconda figlia di nome Giuditta.

Emma morì tra il 1119 e il 1124 quando Ruggero II andò a Montescaglioso e si impossessò dell’eredità della defunta sorellastra. Una curiosità: nel 1133, il fratellastro Ruggero, ormai divenuto re di Sicilia, fece una donazione in suffragio dell’anima di Emma. Aveva qualcosa da farsi perdonare?

 

Documentazione, bibliografia, sitografia

Goffredo Malaterra “Imprese del Conte Ruggero e del Fratello Roberto il Guiscardo” – Introduzione di Vincenzo D’Alessandro – Traduzione e note di Elio Spinnato. Flaccovio Editore, 2000.

Francois Baruchello “I Normanni d’Italia barbari geniali”. Zaccaria Editore, 2004.

“Ruggero I, Serlone e l’insediamento normanno in Sicilia”. Convegno internazionale di studi promosso dall’istituto Italiano dei Castelli-Sezione Sicilia. A cura di Salvatore Tramontana. Atti raccolti da Isidoro Giannetto e Massimiliano Ragusa. Laboratorio per l’arte, la cultura, l’ambiente. Troina, 2001.

“Ruggero I Gran Conte di Sicilia 1101-2001” Istituto italiano dei castelli – Sezione Sicilia. Atti del Congresso internazionale di studi per il IX Centenario (Troina 29 novembre – 2 dicembre 2001). A cura di Guglielmo de’ Giovanni Centelles. Atti riuniti da Isidoro Giannetto e Massimiliano Ragusa. Laboratorio per l’arte, la cultura, l’ambiente. Troina-Roma 2007.

Pasquale Hamel “L’invenzione del regno. Dalla conquista normanna alla fondazione del Regnum Siciliae (1061-1154). Nuova Ipsa Editore. Palermo, 2009.

Vincenzo Squillaci “Chiese e conventi. Memorie storiche e folkloristiche della città di Troina”. Tipografia Merlino. Catania, 1972.

“Documenti latini e greci del conte Ruggero I di Calabria e di Sicilia”. Edizione critica a cura di Julia Becker. Istituto Storico Germanico di Roma & Vuella S.r.l., 2013.

Sebastiano Fabio Venezia “Fra rinascita e declino. Dinamiche economiche e attività culturali in un monastero italo-greco siciliano dal XII al XVI secolo” in “San Silvestro e il monachesimo italo-greco a Troina”. A cura di Sebastiano Fabio Venezia. Pubblicato dalla Venerabile Confraternita di San Silvestro Monaco Basiliano. Troina, 2007.

Wikipedia. Voci: “Ruggero I di Sicilia”; “Giuditta d’Evreux”; “Eremburga di Mortain”; “Adelasia del Vasto”; “Giordano d’Altavilla”; “Goffredo di Ragusa”; Flandina d’Altavilla; “Matilde d’Altavilla (contessa di Tolosa)”; “Malgerio d’Altavilla (conte di Troina)”; “Muriella d’Altavilla”; “Costanza d’Altavilla (moglie di Corrado di Lorena)”; “Felicia d’Altavilla”; “Giuditta d’Altavilla”; “Simone di Sicilia”; “Matilde d’Altavilla (contessa di Alife)”; “Ruggero II di Sicilia”.

“Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea”, www.genmarenostrum.com

Maria Oliveri “Fu contessa di Sicilia e regina (ripudiata) di Gerusalemme: la storia di Adelasia del Vasto” in “Balarm”, 23 gennaio 2023.

Fara Misuraca “Ruggero II d’Altavilla” in www.stupormundi.it.

“La Sicilia normanna. La conquista. Quinto Capitolo” in www.LUTEMilazzo.it.

“Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea”, www.genmarenostrum.com

“L’amore al tempo dei Normanni” in www.ilcampanileenna.it

“Ruggero II d’Altavilla” in gw.geneanet.org

Giovanni Amatuccio “Fino alle mura di Babilonia”. Aspetti militari della conquista normanna del Sud” in “De Re Militari – The Society for Medieval Military History” in www.deremilitary.org.

Giovanni Amatuccio “Cavalieri normanni tra mito e realtà” in www.storiaonline.org.

Salvatore Tramontana “L’effimero nella Sicilia normanna”, Sellerio. Palermo, 1988.

  1. A. Garufi “Adelaide e Goffredo, figliuolo del Gran Conte Ruggero” in “Rendiconti dell’Accademia di Acireale”, Serie III, Vol. VI.

 

 

 

Pino Scorciapino

(CONTINUA)

Condividi su:

blank

Seguici su