Il 5 aprile 2021 – con decreto attuativo – il ministro della Cultura Dario Franceschini ha ufficializzato l’abolizione della censura cinematografica.
«È stato definitivamente superato quel sistema di controlli e divieti che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti» afferma Franceschini. Si tratta, quindi, di una notizia storica per il mondo del cinema e per tutti gli appassionati cultori della splendida arte. Il decreto istituisce infatti una nuova Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche, la quale potrà vietare la visione di alcuni film ai minori di 18 anni, ma non potrà più impedirne l’uscita nei cinema o imporre tagli e modifiche a determinate scene. La Commissione, presieduta dal Presidente emerito del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, è costituita da quarantanove personalità con competenze professionali in campo cinematografico, pedagogico-educativo, giuridico, per arrivare fino ai rappresentanti designati dalle associazioni dei genitori e da quelle animaliste. A questi esperti spetta il compito di valutare la corretta classificazione dell’opera da parte della produzione secondo le quattro fasce previste dalla Legge Cinema del 2016: opere per tutti, opere non adatte ai minori di anni 6, opere vietate ai minori di anni 14, opere vietate ai minori di anni 18. Si tratterebbe quindi di una sorta di autoregolamentazione in cui sono prima i produttori o i distributori a classificare l’opera cinematografica e solo dopo la Commissione a confermarne la categoria o, al massimo, a proporne una diversa. Se volessimo fare un piccolo excursus della storia cinematografica del nostro Paese ci accorgeremmo presto che sono stati tanti i film sui quali la mano oscurantista della censura ha agito severa. Secondo un calcolo di ANSA, dal secondo dopoguerra in poi, i film italiani sottoposti a censura sono stati ben 274, 130 quelli statunitensi e oltre 300 quelli provenienti da altri paesi. All’inizio del Novecento la censura cinematografica accompagnò la stessa nascita e poi la diffusione della Settima Arte nella penisola attraverso l’emanazione del Regio Decreto n. 532 del 31 maggio 1914; un regolamento contenente tutta una serie di divieti che impedivano a un film di essere proiettato, se non in possesso di uno specifico nulla osta. Seguirono, negli anni del fascismo, i rigidissimi controlli del MinCulPop (il Ministero della Cultura Popolare), poi la legge del 1962 che circoscriveva l’azione censoria ai film in cui si fosse realizzata l’offesa al buon costume e così via via fino ad arrivare – tra amputazioni e rimaneggiamenti forzosi – ai giorni nostri. Tanti i registi e i titoli colpiti dal controllo moralistico dello Stato: Bernardo Bertolucci con il suo “Ultimo tango a Parigi” (1972), sequestrato poco dopo l’uscita per «esasperato pansessualismo fine a se stesso», con annessa distruzione di tutte le bobine esistenti (la riabilitazione del film arrivò solo nel 1987); Pier Paolo Pasolini con “La ricotta” (1963), “Teorema” (1968), “Il Decameron” (1971), “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975), a cui venne addirittura negata la nazionalità italiana; “Blow-up” (1966) di Michelangelo Antonioni; “La proprietà non è più un furto” (1973) di Elio Petri, “La grande abbuffata” (1973) di Marco Ferreri; “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Luchino Visconti; “Totò e Carolina” (1955) di Mario Monicelli e infine l’ultimo caso in ordine di tempo, quello di “Totò che visse due volte” (1998) diretto da Daniele Ciprì e Franco Maresco, bloccato in quanto considerato «degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità» e contenente «disprezzo verso il sentimento religioso». Una lista di vittime davvero lunghissima che rende bene l’idea di come la censura italiana abbia controllato e limitato la libertà artistica per più un secolo. Concludendo, risultano emblematiche le parole dello stesso Totò, che, interpellato sull’argomento – in relazione alle vicende censorie che riguardarono il film Totò e Carolina – disse: «se a un comico tolgono la possibilità di fare la satira, che gli resta?».
Lavinia Trovato Lo Presti