“Non proviamo più soddisfazione a compiere il nostro dovere, i nostri doveri… Compierli ci è indifferente. Restiamo male lo stesso. E io credo che sia proprio per questo… Perché sono doveri troppo vecchi, troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza”.
In una cultura fortemente imbevuta di decadentismo, come quella italiana primo novecentesca, si inserisce Elio Vittorini, siracusano di nascita ma settentrionale di adozione. Più volte considerato l’intellettuale del “contro”, ha il merito – insieme a Cesare Pavese – di aver aperto la strada al Neorealismo. Tuttavia, il suo percorso comincia proprio dalle file del Fascismo, inizialmente considerato una costola del socialismo: la Marcia su Roma, infatti, fu per Vittorini un avvenimento rivoluzionario foriero di ordine sociale. La sua etichetta di antifascista, però, nasce dal profondo interesse per la letteratura straniera: la letteratura americana, giovane e scevra di istanze classiciste, poteva infatti permettersi di guardare il reale senza filtri, mettendo i scena i “nuovi barbari”, duri e selvaggi. Tutto ciò mentre in Italia l’ermetismo, e dunque la rappresentazione di una realtà idealizzata e idealizzante, prevale nella letteratura ed è consona ad una rappresentazione controllata del reale. Ebbene, Vittorini riuscirà a fondere queste due anime in una scrittura in grado di coniugare il simbolo, proiezione del suo animo decadente, e il desiderio antifascista di lotta e trasformazione.
Conversazione in Sicilia, il più alto frutto di questa quěte, nasce da un avvenimento politico: la guerra civile spagnola – e l’invio di truppe al servizio di Francisco Franco – che sgretolano l’idea del fascismo come movimento rivoluzionario. La Sicilia, luogo della “conversazione”, viene proiettata in un mondo mitico e onirico, assurgendo a simbolo di tutti i luoghi offesi e imperversati dalla povertà.
Silvestro è in preda ad “astratti furori” e ad una terribile “quiete della non speranza”, un senso di inerzia e impotenza di fronte alle sofferenze del genere umano che richiederebbero invece un impegno attivo. Dopo aver ricevuto una lettera dal padre, nel giorno del suo compleanno, decide di fare ritorno in Sicilia, sebbene il suo sia un doppio nostos che lo riporta contemporaneamente nell’isola e alla sua infanzia.
Silvestro, durante il viaggio in treno, incontra personaggi singolari: il venditore di arance che lo scambia per un americano, rinsaldando in tal mondo il suo rapporto con la terra d’oltreoceano anche nell’intreccio; “coi baffi” e “senza baffi”, poliziotti di regime e cerberi di questa conversazione perché anticipatori di quella terra povera e affamata che Silvestro ritroverà giunto nell’isola; infine, il Gran Lombardo, l’uomo che incarna i nuovi doveri che gli uomini devono essere pronti ad adempire, in un momento in cui gli uomini si sentivano bravi cittadini per il solo fatto di non rubare e non uccidere.
Giunto in Sicilia farà visita alla madre Concezione, madre di tutte le madri, con la quale avrà una conversazione in cui emerge con forza la matrice simbolista di Vittorini, capace di una presentificazione del passato, di proustiana memoria: sente l’odore delle aringhe nella casa materna e subito il passato torna vivido nella sua mente. E su questa scia si innesta il desiderio di lotta e trasformazione: gli “astratti furori” e la “quiete della non speranza” dell’incipit del romanzo – in cui si rivela l’incapacità di agire – vengono richiamati dai personaggi incontrati durante il tragitto in compagnia della madre: l’arrotino, Porfirio, Ezechiele e Colombo, tutti loro rappresentano quella parte di umanità continuamente bistrattata e insistono sulla necessità di imparare a soffrire per il mondo offeso invece che per i propri personali dolori: solo in questa solidarietà compassionevole l’uomo troverà la forza per ribellarsi all’oppressione.
Concita Carmeni