Dislocati nelle campagne del territorio di Troina, importante centro montano del Val Demone in età medievale, erano una serie di edifici e strutture deputate alla lavorazione dei prodotti agricoli ed alla produzione e trasformazione di materiali utili all’uomo; essi permettevano il lavoro costante e continuo di parecchi uomini in un territorio avente un’estensione più che doppia rispetto all’attuale, ma con una popolazione quasi dimezzata.
I modelli produttivi riscontrati erano strettamente connessi alla vocazione agricola dei luoghi in questione, legata ad una ben definita cultura alimentare basata sul classico binomio grano-vino ed alla quale si aggiunse in periodi successivi l’olio, oltre ad essere integrata ad altri modelli produttivi, quali il silvo-pastorale.
Tra le strutture deputate alla lavorazione dei prodotti agricoli giunte fino ai nostri giorni, qualcuna citata anche nella documentazione d’archivio, si annoverano in primo luogo i palmenti, seguiti dai mulini ad acqua e da una serie di impianti preposti alla lavorazione e trasformazione di prodotti meno importanti ma fondamentali nell’economia del periodo preso a riferimento.
Permettendo la trasformazione dell’uva in mosto sullo stesso luogo di coltivazione del vigneto, il palmento rimane nei secoli una struttura che indica la correlazione tra la presenza di un banco roccioso, nel quale veniva scavato il vascone per pigiare l’uva, denominato palmento o pigiatoio, e l’impianto viticolo.
Nell’ambito del vasto territorio troinese sono state individuate una cinquantina di pigiatoi ricavati nella roccia, utilizzati sicuramente in epoca medievale, anche se stabilire la datazione degli stessi risulta complicata; alcune strutture, infatti, sono da riportare all’epoca repubblicana e imperiale, mentre meno si conosce delle epoche precedenti. Fra l’altro, in quasi tutti i palmenti rinvenuti, sono state individuate tipologie strutturali ricorrenti; pertanto, come per tutti gli impianti ricavati nella roccia appare complesso estrapolare un certo intervallo cronologico relativo al loro utilizzo, i quali hanno sicuramente subìto diverse fasi di sfruttamento terminate in tempi recenti; la carenza, altresì, di materiale ceramico datante contribuisce a rendere la datazione incerta.
Le prime notizie documentate della consistente presenza di vigneti a Troina fanno riferimento alla fine del XIII secolo, le cui vigne sono attestate nelle seguenti contrade: Sant’Ippolito e Aterme (1294), Sant’Anastasia e Ordine (1331), Cuculli (1332), Ramatisi (1334), San Giorgio (1343); le attestazioni riguardanti il 1363 fanno capo alle contrade Ordine, Lavanca, Chachici, Cuculli, Sant’Anna e Xilemi, mentre nel 1351 è attestata una vineam seu plantam in contrada Planum de Oliva, mentre nel 1363 è attestata plantam unam magnam in contrada Lavanca. Il termine plantam riveste il significato di vigna giovane, il cui termine dialettale corrisponde a chianta.
L’elevato numero di vigneti menzionati nei documenti dell’epoca, farebbe pensare come la vite fosse a Troina una delle colture più importanti, dopo i cereali, il cui impianto non avveniva a danno del terreno già dissodato e destinato ai seminativi, ma a danno del pascolo; le piante venivano allevate quasi sempre a ceppaia bassa o alberello. È comunque da precisare che con il termine vinea si intende sia il vigneto in atto sia il terreno dove già vi era stato un impianto di viti. Oltre ad essere diffuso in prossimità dell’abitato, il vigneto è riscontrato anche a distanza, in piccoli appezzamenti per lo più con esposizione a Mezzogiorno, le cosiddette solicchiate, nelle quali raramente si superavano le migliaia di ceppi: mancano ancora i grandi vigneti, presenti invece a partire dal XVIII secolo.
Non è chiaro quali vitigni siano stati coltivati nell’areale del troinese prima dell’infestazione della fillossera, riscontrata per la prima volta in Sicilia pare nel 1879, anche se si suppone la possibile presenza di quegli ecotipi provenienti dall’areale etneo, adatti alle condizioni climatiche alto collinari e montane. Al fine di combattere questo parassita vennero accantonate modalità colturali antichissime ed adottati nuovi metodi di coltivazione, come pure utilizzati nuovi terreni, anche se con esposizione poco adatta alla produzione della stessa vite.
A partire dalle aree prossime al centro abitato, esposte a Mezzogiorno, erano presenti dei vasconi realizzati nei pressi dell’antica cinta muraria, nella zona archeologica di località Catena, seguiti da altri ubicati a San Pantheon, Dietro le Rocche, Carzopillo e Loggione, fino a raggiungere Serro Bianco e Calabrò. Anche i dintorni di Muganà riservano interessanti esempi di vasconi, qualcuno ricavato da strutture più remote; non sono da meno quei pigiatoi ubicati più a valle, in contrada Lercara, Liso, Sotto Badia e Ordine, ma anche in contrada Sant’Antonio, fino al Serro di Scarvi. Continuando su quest’itinerario, si possono incontrare strutture della stessa tipologia in contrada Torre di Naso, Cota, Varsamà e San Vito. Oltre a questa zona, posta a sud del territorio, non mancano pigiatoi riscontrati nella zona a nord dello stesso ma con esposizione, comunque, a Mezzogiorno. Si menziona un caratteristico palmento in contrada Corvo, ed ancora nelle contrade Calamaro, Sciarette e Mannia. Anche se non facenti più parte dell’attuale territorio comunale, vale la pena ricordare i numerosi pigiatoi posti oltre il Fiume Troina in contrada Pricchio ed Ancipa ed, infine, i cosiddetti Palmintelli nell’omonima contrada. La località denominata Scifazzu, dal greco skýphos = tazza, vasca o trogolo, indica la presenza di un contenitore dove vi mangiano i maiali; in particolare, nel caso in questione, indica una grande vasca di forma rettangolare, scavata nella roccia ed utilizzata per la pigiatura dell’uva.
L’individuazione di vasche di forma circolare o quadrangolare, come pure alcune canalizzazioni per la raccolta dell’acqua meteorica e per la pulizia e la manutenzione dell’impianto, oltre a tracce d’incasso per le palificazioni, riconducono a strutture realizzate in materiale deperibile, mediante l’impiego di legname e fasciame, anche se alcune evidenze di tal tipo risultano ancora di difficile interpretazione.
Diverse fonti testimoniano la presenza di vigneti forniti di palmenti, le cosiddette vineas di Troina, registrate in un privilegio di Federico II del maggio 1210. La toponomastica più antica relativa al territorio di Troina fa menzione di due palmenti, definiti palmenta lapidea (1331), ubicati nei pressi del fiumetto de Appidallo i quali, in epoche successive, avrebbero dato alla medesima località il nome di Palmentelli o Parmintieddi indicando, pertanto, delle vasche o pigiatoi ricavati nella roccia. Altro palmento, definito domo palmento (1363), era costituito da una struttura coperta, posto nell’ambito sempre di un vigneto in contrada Ordine.
La toponomastica più recente fa menzione di strutture databili tra il XVIII ed il XIX secolo e realizzate in muratura, delle vere e proprie case rurali nelle quali nel loro interno era presente anche un ambiente destinato a palmento. Un tale tipo di edificio, sia esso scavato nella roccia, sia realizzato in muratura, nelle sue linee generali era composto da due vasconi, dei quali uno più ampio e sopraelevato, il vero e proprio pigiatoio, denominato ancora oggi dai contadini paraturi o pistaturi e l’altro, più piccolo e sottomesso al primo, denominato palacciu, provvisto di un incavo nella parte centrale, al fine di permettere la raccolta del mosto. I raspi rimasti nel pigiatoio venivano ulteriormente pigiati al fine di ottenere altro mosto e, successivamente, pressati e spremuti attraverso delle assi di legno sulle quali venivano riposte grosse pietre. L’impiego di una trave di legno denominata chianca, conficcata in una delle pareti del palmento e legata all’altra estremità per essere utilizzata a mo’ di leva, permetteva di accentuare la pressione.
Tecniche successive e più evolute, pur effettuando la fondamentale fase di pigiatura, esercitata sempre con i piedi, facevano sì che il mosto ottenuto venisse fatto fermentare da uno a due giorni insieme alle vinacce e da queste separato, successivamente, per mezzo di torchi. Questi ultimi erano costituiti da una robusta trave incassata ad un estremo, mentre dall’altro era imperniata una vite di legno, ‘u truocchiu, realizzata generalmente con legno di sorbo, attaccata alla base ad una pesante pietra che aveva la funzione di contrappeso e denominata rumanu.
Oggi, questi antichi vasconi impiegati nella pigiatura dell’uva rappresentano degli indicatori di vigneti, ormai non più esistenti, coltivati in passato nel territorio preso in esame.
Nicola Schillaci